Report ranucci

L’attentato al notissimo conduttore di una delle ultime oasi del servizio pubblico radiotelevisivo Sigfrido Ranucci è un salto di qualità negli attacchi all’informazione libera.

Gli esecutori dell’azione omicida hanno utilizzato le modalità cui ricorre la criminalità quando vuole perseguire i suoi intenti mostruosi con una vera e propria cerimonia mediatica. Vale a dire, l’esibizione della crudeltà con un atto che rimanga ben impresso nell’immaginario collettivo.

La memoria va immediatamente allo stragismo di cui è tristemente piena la storia italiana: mutatis mutandis, dall’assassinio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a quello tentato di Maurizio Costanzo, o all’incursione dinamitarda alla sede del manifesto nel dicembre del 2000. Si parla di pista albanese e di altro, chissà. La verità fa sempre male.

Insomma, un invito ai media a parlarne, affinché sia chiaro il messaggio intimidatorio.

Le indagini chiariranno -speriamo- se e quante complicità vi sono state: del resto, nello stesso luogo erano stati lasciati tempo fa dei proiettili, come un crudele antipasto.

Ciò che risulta evidente, a prescindere dall’inchiesta, è il clima pesante che è stato costruito attorno a Report: accuse persino prima della messa in onda, record assoluto di querele (temerarie), insulti da scranni istituzionali. Se, guai a dirlo o a pensarlo, non si può tracciare qualche linea di congiunzione tra la destra al governo e ciò che è successo, tuttavia è evidente il contesto: attacchi costanti a chi dissente anche attraverso normative speciali, occupazione della Rai (Mediaset già gira intorno all’Esecutivo), disprezzo esibito verso i giornalisti rifiutandosi di farsi intervistare fuori dal fortino controllato da parte di Giorgia Meloni.

Si è accennato alle querele temerarie, chiamate così perché hanno lo scopo prevalente di ricattare con richieste di risarcimenti milionari croniste e cronisti che osano mettere il naso nelle zone segrete del potere. Report è in cima alla classifica e solo dopo l’ignobile attentato il vertice della Rai si è degnato di esprimere solidarietà. Se davvero si intende difendere una delle ultime trincee del pluralismo, allora si restituiscano le puntate tagliate dal palinsesto, si ricollochi il lunedì la trasmissione anticipata alla domenica per frenarne gli ascolti, si chiuda positivamente la ferita del precariato.

Quest’ultima questione, oggetto di una polemica ormai prolungata, si è connotata a sua volta di significati para-censori, essendo giornaliste e giornalisti contrattualizzati ma spediti nelle sedi regionali. È un modo apparentemente indolore per creare -invece- un doloroso indebolimento della struttura redazionale. E si introduca nella Legge di delegazione europea, in discussione alla Camera dei deputati, il recepimento della direttiva 2024/1069 Slapp (strategic lawsuit against public participation) che parla proprio delle querele.

Come talvolta accade, l’avversario sopravvaluta le sue forze, come ci hanno insegnato maestre e maestri della sinistra. Forse è questo il caso, se si vede come è stata la risposta: dall’iniziativa immediata davanti al luogo di lavoro in via Teulada di Roma, alla presenza sabato scorso di un ampio spontaneo movimento della società civile nei pressi dell’abitazione di Ranucci a Pomezia, al dibattito al Parlamento europeo, alla piazza di ieri promossa dal Mov5Stelle nella piazza S. Apostoli di Roma.

Ma non è sufficiente, a maggior ragione dopo le parole esplicite del Presidente Sergio Mattarella.

Come da un paio di anni predica l’associazione Articolo21 (che l’ha riproposta nel corso della serata di Libera su Giancarlo Siani) è il momento di promuovere una grande manifestazione nazionale sul diritto all’informazione e la tutela del pensiero critico contro ogni omologazione.

Potrebbe essere una importante scadenza della Via Maestra, cui si sta dedicando la Cgil insieme a numerose sigle e che ha indetto un appuntamento impegnativo per il prossimo sabato 25.

Ci ricordiamo la straordinaria occasione della romana piazza del Popolo il 3 ottobre 2009 in età berlusconiana. E ora è peggio.

Fonte: il manifesto