Recepire la direttiva Daphne (2024/1069, c.d. Anti-Slapp)

Daphne

Era il primo pomeriggio del 16 ottobre 2017. Daphne Caruana Galizia, una giornalista d’inchiesta maltese, s’avvicino alla sua Peugeot 108, non lontano dalla Valletta. Non fece in tempo a salire a bordo e a mettere in moto. La macchina esplose. Daphne morì sul colpo.

La giornalista aveva svolto inchieste sui c.d. Panama papers, documenti che rivelavano l’esistenza di flussi illeciti di danaro che si giovavano di paradisi fiscali. In questi affari erano coinvolti personaggi politici molto in vista dell’isola di Malta.

L’omicidio fu l’ennesima conferma di come fare seriamente il mestiere del cronista può costare moltissimo, persino la vita. In Italia lo sappiamo bene: Mauro de Mauro che indagava sull’omicidio di Enrico Mattei già nel 1962; Giancarlo Siani, che scriveva di camorra a Napoli, ucciso nel 1985; Mauro Rostagno, che diceva di mafia alla radio, ammazzato nel 1988, e – purtroppo – molti altri. La questione è ancora molto attuale, tanto che addirittura papa Leone XIV ne ha parlato in sedi formali (v. l’Osservatore romano del 12 maggio 2025).

Uccidere un giornalista – però – ha le sue controindicazioni. Fa sensazione, può comportare imprevisti, costringe la polizia a indagare. Le mafie quindi hanno deciso di adottare un diverso percorso per zittire i giornalisti, mutuandolo dalla cassetta degli attrezzi adoperata da altri agglomerati di potere, politico o economico: la querela temeraria.

Si tratta di un mezzo usato dalle personalità affermate nel mondo imprenditoriale e politico ma anche nell’ambito degli stessi mass media, nel cinema e dovunque la reputazione sia intesa come intoccabilità.

L’azione temeraria è un’iniziativa giudiziaria che ha scarse possibilità di successo. Il cronista generalmente ha scritto cose vere, le ha esposte correttamente ed esse riguardano aspetti di indiscusso interesse pubblico. Egli ha fatto ricerche e verifiche serie, spulciando documenti e ascoltando fonti attendibili. Ma il querelante non vuole vincere la causa. Gli è sufficiente intentarla. Il potente di turno ha a disposizione tempo e soldi. Il giornalista invece no. Spesso è un precario che viene pagato pochi spiccioli a pezzo e scrive per passione e per farsi le ossa. Non ha le spalle per sopportare un processo lungo: non ha i danari per pagarsi un buon avvocato e non ha i nervi per fronteggiare una grande impresa o un politico di fama che ha relazioni e influenza. Le cause durano anni e il malcapitato redattore rinuncerà a scrivere. Vincerà la causa? Probabilmente sì. Ma nel frattempo il diritto di cronaca sarà stato compresso e con esso il diritto di tutti noi a essere informati.

Ne sono stata testimone ravvicinata nella vicenda del mio compianto amico Camillo (Ario) Costa, un valoroso giornalista della provincia di Monza e Brianza, il quale dal suo blog INFONODO denunciava incessantemente la presenza e l’attività di consorterie di ‘ndrangheta in Lombardia e che infine dovette chiudere il sito perché non poteva più sostenere le spese per gli avvocati.

Che fare?

Per una volta, l’Europa ci chiede una cosa giusta e utile: recepire la direttiva 2024/1069, detta proprio direttiva Daphne (o anche anti-SLAPP).

La direttiva domanda ai Paesi membri di fare essenzialmente tre cose:

  1. prevedere che i processi per diffamazione – ove la natura infondata e pretestuosa della causa sia evidente – finiscano in un momento precoce del contenzioso. In pratica, il procedimento deve arrestarsi con un rigetto anticipato della richiesta risarcitoria del soggetto ricorrente;
  2. prevedere una condanna aggravata alle spese (e quindi a una sorta di risarcimento del danno) a carico del soggetto ricorrente in favore del giornalista;
  3. prevedere che il giudice, quando vi sia un’azione giudiziaria contro persone fisiche e giuridiche a motivo delle loro dichiarazioni pubbliche (per esempio, giornalisti e le loro testate), possa imporre al querelante una cauzione a copertura delle spese di giudizio delle persone querelate.

Già queste misure sarebbero molto efficaci per scoraggiare le cause abusive.

Eppure ora viene il difficile. La direttiva scade il 7 maggio 2026. Ed e’ in discussione alla Camera dei deputati, in queste settimane, la legge di delegazione europea. Si tratta della legge con cui – anno per anno – il Parlamento delega il Governo a recepire nella legislazione italiana le direttive europee. Di solito, questa legge non ha un grande appeal sui giornali e sui social media. Le direttive europee (lo dico per esperienza personale) sono noiose e ad alto contenuto tecnico. Spesso parlano di caratteristiche fisiche e chimiche dei prodotti, delle informazioni dovute al consumatore rispetto alle attività finanziarie, del coordinamento tra autorità amministrative dei diversi paesi, eccetera.

Questa volta, però, Governo e maggioranza avrebbero dovuto inserire tra le direttive da recepire un atto fondamentale, cioè la direttiva Daphne. Ma non lo hanno ancora fatto. Non l’anno scorso (respingendo persino un emendamento in tal senso di Filippo Sensi); non quest’anno (ma sono sul tavolo due emendamenti, di Piero De Luca e di Federico Cafiero de Raho).

Tra i Paesi europei la direttiva è stata già recepita a Malta e in Romania. Nei Paesi Bassi, i giudici già la applicano perché il diritto olandese è, nella sostanza, conforme a quel che essa prevede. L’augurio è, ovviamente, è che ci sia un ravvedimento e che la direttiva entri nella delega europea in extremis quest’anno. Ma che succederà se la direttiva non verrà recepita per tempo in Italia?

Tanto per cominciare, ci costerà caro a tutti. Inizierà la procedura d’infrazione che costerà migliaia di euro al contribuente italiano. In secondo luogo e con più diretto riferimento ai giornalisti, si aprono strade giudiziarie complesse ma non impossibili.

La Corte di giustizia dell’UE ha sempre detto che chi ha torto non può giovarsi del mancato recepimento delle direttive (altrimenti tutto l’edificio europeo perderebbe di senso). Quindi, se c’è una direttiva, i cui termini siano scaduti e che mira ad assegnare a soggetti determinati diritti e facoltà precisamente identificati e senza altre condizioni, quella direttiva può essere applicata direttamente dai giudici nazionali, pur in mancanza di una legge interna di recepimento.

In pratica, gli avvocati dei giornalisti dovrebbero chiedere ai giudici di applicare le disposizioni del codice di procedura civile italiano (che non sarà ancora stato formalmente modificato in ossequio alla direttiva) in modo conforme a essa. Pertanto, dovrebbero fare istanza per un rigetto precoce della richiesta risarcitoria (subito dopo le prime battute del procedimento); chiedere l’applicazione immediata dell’art. 96 del codice sulla responsabilità aggravata della parte processuale che sta in giudizio con dolo o colpa grave (una proposta di legge in tal senso era stata anche fatta da Primo Di Nicola nella scorsa legislatura); fare istanza per il versamento di una cauzione, nei casi in cui il giudice non sia immediatamente persuaso dell’infondatezza della domanda risarcitoria, ragion per cui ritenga di portare avanti il processo nei tempi ordinari.

Inoltre, gli avvocati dei giornalisti potrebbero anche sperimentare vie più dense di significato: potrebbero far valere la Carta dei diritti fondamentali dell’UE (c.d. Carta di Nizza), al cui art. 11 è previsto il diritto di libera manifestazione del pensiero (in senso analogo al nostro art. 21 della Costituzione), entro cui si collocano i diritti di cronaca e a essere informati. I nostri tribunali affermano spesso che la Carta di Nizza non può trovare applicazione diretta in Italia senza un solco predisposto da un atto europeo che indichi una base giuridica. Ma in questo caso quell’atto c’è, proprio la direttiva Daphne. In buona sostanza, i giudici italiani potrebbero essere sollecitati a respingere i tentativi intimidatori di chi avanza pretese infondate (sia un’organizzazione illecita, sia un differente tipo di potentato), in ragione del diretto contrasto con il diritto europeo.

Fonte: Articolo 21