Rai, le discese ardite senza risalite

Telecamera rai

Presso l’ottava commissione del Senato è in corso la discussione sulle «Modifiche al testo unico dei servizi media audiovisivi, di cui al decreto legislativo 8 novembre 2021, n.208». Tradotto: la nuova legislazione sulla cosiddetta governance (termine dell’età liberista da abolire) della Rai dopo l’acclarata illegittimità – secondo l’articolo 5 dell’European Media Freedom Act in vigore dallo scorso 8 agosto – della normativa varata nel 2015 nell’epoca dell’esecutivo presieduto da Renzi. La l. 220 del dicembre di quell’anno rovesciò una consolidata giurisprudenza costituzionale, trasferendo il controllo dell’azienda dal parlamento al governo. Incombe una costosa infrazione europea, tanto più in quanto l’Emfa è un Regolamento e non una Direttiva, quindi di immediata applicabilità.

La novità politicamente davvero significativa è la scelta unitaria fatta dalle opposizioni, capaci di depositare un corpo emendativo condiviso. Al di là della discussione generale sulle alleanze, in verità obbligate se si vuole preparare un’alternativa, non era scontato che su temi non sempre univoci si depositassero tredici testi a firma (alternata) Fregolent (Iv), De Cristofaro (Avs), Barbara Floridia (M5S), Nicita (Pd).

Gli argomenti introdotti nel confronto-scontro con la maggioranza riguardano la scelta di considerare la Rai la società titolare del servizio pubblico, senza la sudditanza ad una periodica concessione. Vige un contratto (ex di servizio) sulle attività e sulle risorse, che regola i rapporti con lo Stato.

Inoltre, il canone è un’imposta di scopo, liberata dal ricatto annuale attorno alla sua esistenza e deve rispondere alle necessità di una struttura votata a voltare pagina, guardando all’era immanente della circolazione dei dati e delle intelligenze artificiali. L’addestramento delle IA è un compito inevitabile e necessario per potere ancora parlare di servizio pubblico, non certamente centro tolemaico del sistema, bensì importante frammento dell’infosfera.

C’è molto da lavorare, per evitare di rimanere spiazzati, come fu – mutatis mutandis – quando nella seconda metà degli anni 70 del secolo scorso l’entrata in scena dell’emittenza commerciale incrinò culture politiche adagiate sul monopolio e sui suoi riti. Ripetere un errore omologo sarebbe esiziale e caccerebbe definitivamente l’Italia ai margini del nuovo villaggio globale.

Nell’articolo 1-bis proposto si afferma che l’azienda «…ha per missione principale quella di educare, informare, intrattenere tutti i cittadini italiani ed europei nell’era digitale…diventando…il punto di riferimento nella vasta offerta esistente su internet, offrendo un’alternativa italiana ed europea protetta…». Ecco il tentativo di immaginare un servizio pubblico-bene comune di nuova generazione.

Vi è, poi, l’emendamento sule modalità elettive del consiglio di amministrazione. Qui c’è un elemento di lotta asperrima contro il tentativo della maggioranza di fare rientrare dalla finestra il comando governativo, essendo la scelta degli amministratori prevista con la maggioranza dei due terzi di Camera e Senato solo nelle prime tre votazioni, passando poi alla maggioranza assoluta dopo il terzo voto.

Le opposizioni hanno deciso di configurare in maniera assai diversa il vertice, innanzitutto sfalsando la durata temporale dei consiglieri: mandato quinquennale per i quattro eletti dalle Camere e quadriennale per i due designati rispettivamente dall’Associazione nazionale dei comuni (Anci) e dalla Conferenza delle Regioni nonché delle Province autonome. Il rappresentante delle lavoratrici e dei lavoratori avrebbe un mandato biennale.

I nomi vanno scelti dopo audizioni delle associazioni culturali e delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Si è inteso superate la logica del «pacchetto» lottizzatorio, avendo ogni componente una responsabilità individuale. Ovviamente, sarà un conflitto e non sembrano esserci margini compromissori.

Ma la Rai che le opposizioni difendono non può, non deve essere quella brutta ed asservita di oggi.

Fonte: il manifesto