Un giorno con gli educatori dell’istituto penitenziario di Bollate (Milano).
“Non formiamo bravi detenuti, ma cittadini”, dice il responsabile Roberto Bezzi. Qui le celle sono chiuse solo di notte e si svolgono tante attività. Risultato: il tasso di recidiva è solo del 18%. si entra lasciando il documento dopo la registrazione. Poi si attraversano la guardiola esterna e tre cancellate presidiate dagli agenti. Ogni cancello si apre solo quando il precedente si è chiuso.
È un passaggio fisico, ma anche simbolico: varcata la soglia della Seconda Casa di reclusione di Milano-Bollate, si entra in un’altra dimensione, dove il tempo è sospeso e il “fuori” sembra lontano anni luce. Eppure, proprio qui, ogni giorno si lavora perché quel fuori “torni” ad avere senso.
È in questo spazio in bilico tra controllo e accoglienza che incontriamo Roberto Bezzi, responsabile dell’area educativa: “Il carcere per me deve essere un pronto soccorso pedagogico. Non un contenitore, ma un luogo capace di rimettere in cammino chi è caduto”. A Bollate, queste parole si fanno prassi quotidiana. Le celle sono aperte dalle otto del mattino alle otto di sera. I detenuti si spostano autonomamente da un’attività all’altra con un badge elettronico.
“L’obiettivo”, spiega Bezzi, “è permettere a chi è recluso di autogestire la propria giornata. Perché fuori nessuno ti dice quando devi andare a lavorare, a studiare, a lavarti. Se vogliamo preparare al rientro nella società, dobbiamo responsabilizzare. Questo lo facciamo con l’aiuto degli agenti: noi siamo funzionari giuridico-pedagogici”.
È questo il nome tecnico che delinea la figura dell’educatore. “Il nostro compito principale è la programmazione dei percorsi rieducativi che realizziamo insieme al detenuto”, prosegue il responsabile, che è anche co-autore del libro Educare in carcere. Tra le celle si lavora, si studia, si partecipa a laboratori teatrali, ci si iscrive all’università.
“Circa 300 persone escono ogni giorno per andare a lavorare all’esterno. Se il carcere è troppo centrato su sé stesso, rischia di insegnare solo a stare in carcere”, riflette Bezzi. “Ma noi dobbiamo aiutare le persone a imparare a vivere fuori”. Bollate ospita circa 1.400 detenuti, di cui 150 donne, distribuiti in reparti con specificità diverse: giovani, detenuti con pene lunghe, mamme con bambini, semiliberi, persone con problemi di natura mentale o dipendenza da sostanze. “Ci sono persone che hanno vissuto per anni nella marginalità, altre che vengono da contesti “normali”, ma hanno commesso reati. La nostra sfida è pensare a percorsi individualizzati”, spiega.
Gli educatori a Bollate seguono direttamente un gruppo di persone e coordinano ambiti specifici: genitorialità, scuola, sport, cultura, lavoro. “Non siamo terapeuti, ma persone che si prendono cura. Siamo facilitatori. Il compito dei 22 educatori, a cui si aggiungono psicologi e criminologi, è offrire strumenti. Poi tocca alla persona usarli”, dice ancora Bezzi.
“Mi piace pensare che portiamo pagine bianche in libri che sembravano già finiti. Offriamo la possibilità di riscrivere un finale diverso”. E qualcuno lo fa davvero. Cristian e Christian, per esempio, hanno seguito un corso per tecnici luci e audio. Oggi lavorano nel teatro interno e partecipano a laboratori con l’esterno. “Rubavamo, è vero”, ammettono, “ma poi ci siamo scoperti capaci di fare altro. Non lo sapevamo nemmeno noi”.
“Se una cosa ti piace, la memorizzi prima”, aggiunge Cristian, che ora lavora anche fuori dall’istituto di pena in regime di articolo 21, “e noi ci siamo appassionati. A volte partecipiamo anche come attori, ma il nostro ruolo è dietro le quinte, come tecnici. E sai che soddisfazione quando il pubblico applaude e tu hai sistemato le luci giuste”. Gabriel lavora nel settore della logistica e confeziona pezzi per un’azienda. “Qui ti insegnano la precisione, la responsabilità. Un lavoro che fuori forse nessuno mi avrebbe mai affidato, ma che qui mi restituisce dignità”.
Fadi invece è appassionato di lingue. “Ho imparato da solo lo svedese, l’inglese e adesso anche l’italiano. Le lingue mi piacciono perché ogni parola apre un mondo nuovo. Anche in carcere si può viaggiare, basta saper ascoltare”. Dentro non sempre c’è spazio per le relazioni affettive: “Fuori ho una compagna, una persona perbene” – dice Cristian – “ma è stanca. E io ho capito che non sono solo le vittime dirette a soffrire. Anche chi ti vuole bene paga per gli errori che hai fatto. Lei è una vittima innocente”.
Questo lavoro è anche per lei. Un punto forte dell’istituto milanese è il rapporto con il mondo esterno: “Ogni giorno qui entrano scuole, cooperative, aziende. Se mi chiedono: “Si può replicare questo modello?”, rispondo sì, ma a due condizioni: serve una comunità disposta a bussare e un carcere disposto ad aprire”, chiosa Bezzi. L’approccio educativo di Bollate ha anche un forte impatto sui numeri. La recidiva qui è al 18%, contro una media nazionale di circa il 70%. “Più un carcere è aperto, più dà strumenti, più mette una persona in condizione di scegliere, meno è probabile che torni a delinquere”.
La pedagogia di Bollate è fatta anche di umanità, prossimità, empatia. “Quando un detenuto ha un problema”, spiega Bezzi, “bisogna esserci. È questa la parte più umana del nostro lavoro. A volte anche la più dura: come quando devi comunicare a qualcuno che ha perso un familiare”. Le storie di chi ce l’ha fatta si intrecciano con le fragilità di chi ancora cerca un equilibrio.
“Dopo 17 anni dentro e fuori” – racconta Christian – “questa volta voglio finirla. Voglio chiudere con il passato e iniziare un altro capitolo”. Tante vite e tentativi, guidati dagli educatori del carcere: “Non mi interessa formare bravi detenuti, ma cittadini. La pena deve servire, non ferire”, conclude Bezzi. “Perché ogni persona che ha sbagliato, può cambiare. La vera sfida è crederci fino in fondo”.



