Lui è Hamid Badoui, morto suicida in carcere poche settimane fa.
Aveva 42 anni. Era nato in Marocco ma stava in Italia da tempo.
Lo abbiamo conosciuto quando viveva sotto al portico di un edificio che ospita i nostri servizi di bassa soglia, spinto come tanti in una condizione di vulnerabilità estrema anche dall’abuso di crack.
Sua sorella insisteva per averlo a casa, ma Hamid si vergognava della dipendenza dal crack e non voleva pesare sulla famiglia.
Con noi era sempre gentile, amichevole, tranquillo. Veniva al Drop in ogni lunedì mattina a fare colazione e prendere qualcosa da mangiare per chi dormiva con lui sotto al portico. Mediava quando qualcuno era nervoso o aggressivo, e collaborava alle pulizie per mantenere il luogo più vivibile e accogliente. Nella sua fragilità, era una persona di cuore.
Un giorno ci è arrivata una chiamata dal carcere di Torino. Hamid era stato arrestato per un piccolo reato legato al consumo di sostanze, e dalla cella aveva deciso di provare a cambiare vita.
Si è affidato agli operatori interni del SerD per iniziare un percorso di recupero, e si è appoggiato a noi per poterlo continuare una volta fuori. Tutto era pronto per il suo rilascio: la sorella felice di prenderlo con sé, gli appuntamenti col SerD esterno già fissati in una zona nuova della città, per non ricadere nei vecchi giri. Eravamo così piene di speranza per lui! Ma le cose sono andate diversamente.
Subito dopo la scarcerazione Hamid, che nei suoi anni di vita in strada non aveva rinnovato i documenti di soggiorno, è stato rinchiuso in un CPR – Centro di Permanenza per il Rimpatrio – in Puglia e da lì trasferito in Albania, per un mese di prigionia che al suo avvocato ha descritto come un periodo da incubo.
Quando finalmente ha potuto rientrare a Torino – perché la detenzione extra-territoriale è stata considerata illegittima – era frustrato e sfinito. Ha avuto un diverbio con qualcuno, forse una banale incomprensione, ha chiamato la polizia ma il suo stato emotivo precario gli è costato un nuovo arresto.
A quel punto probabilmente ha visto soltanto il buio davanti a sé. Pensiamo avesse il terrore di essere rimandato al CPR, vissuto come una punizione insensata e drammatica, peggiore del carcere. Non riusciva più a immaginarsi una via di uscita dai suoi problemi, e si è impiccato prima ancora che il fermo venisse convalidato.
Non ti dimenticheremo, Hamid. La tua morte ci spezza il cuore. Resteremo sulla strada per tutte le altre persone che come te cercano a fatica di rimanere a galla, affrontando crisi interiori e ingiustizie esterne, paure, giudizi e violenze, anche istituzionali.
Sulla strada per Hamid
Un amico fragile e gentile, che dalla vita non ha ricevuto abbastanza gentilezza in cambio.
Da sessant’anni siamo sulla strada per le persone come Hamid, spinte sempre più ai margini. Da sessant’anni affrontiamo fragilità esistenziali e sociali, lutti dolorosi ma anche storie di rinascita.
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