La recente circolare del DAP centralizza le autorizzazioni e rischia di rallentare percorsi educativi e di reinserimento. Dal 21 ottobre organizzare un laboratorio o un evento in carcere è diventato più difficile.
Una nuova circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria stabilisce infatti che, negli istituti con circuiti di Alta Sicurezza, 41-bis o destinati ai collaboratori di giustizia, ogni iniziativa educativa, culturale o ricreativa – anche se rivolta a detenuti di media sicurezza – debba essere autorizzata direttamente dal D.A.P. di Roma.
Fino a oggi era sufficiente il via libera del direttore dell’istituto o del provveditorato regionale, garantendo tempi più rapidi e un rapporto diretto con il territorio. Ora, invece, tutto passa dal livello centrale.
Questa scelta suscita forte preoccupazione, perché rischia di indebolire l’azione educativa di associazioni, cooperative sociali, scuole, università e realtà del terzo settore, che da anni operano negli istituti penitenziari con finalità di reinserimento. L’aumento della burocrazia e la necessità di presentare richieste dettagliate con largo anticipo possono generare ritardi, cancellazioni e rinunce.
Un ulteriore elemento critico è il divieto che le attività siano “esternalizzate esclusivamente a soggetti terzi”. Una formulazione che rischia, di fatto, di escludere volontariato e associazionismo: proprio quei soggetti che l’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario (legge 354/1975) riconosce come parte essenziale del percorso rieducativo.
L’esperienza di Libera in questo ambito – delicato ma fondamentale – mostra un rischio concreto: limitare l’accesso della società civileagli istituti. Una scelta che potrebbe rendere più difficile la collaborazione con le realtà educative e culturali, indebolendo quello che rimane l’unico vero argine contro la recidiva e la disumanizzazione del carcere: la relazione.
Nella piattaforma “Fame di Verità e Giustizia” abbiamo ribadito con forza che la pena deve conservare il suo carattere rieducativo e inclusivo, come stabilito dall’articolo 27 della Costituzione.
Rieducare significa offrire opportunità di formazione, lavoro, cultura e relazione; costruire percorsi di responsabilità e consapevolezza; mantenere aperto un varco verso la comunità esterna, affinché la società sia parte attiva del reinserimento e non semplice spettatrice della condanna.
Siamo convinti che la sicurezza non si costruisca isolando, ma accompagnando. E che per farlo servano fiducia, apertura, partecipazione. Al contrario, l’irrigidimento delle procedure rischia di produrre ulteriori rallentamenti e chiusure.
Di fronte ai numeri drammatici dei suicidi in carcere e alle condizioni sempre più dure vissute dalle persone detenute e da chi vi lavora, ribadiamo la necessità di investimenti infrastrutturali e culturali, affinché il periodo di detenzione possa trasformarsi in un laboratorio di umanità e ricerca di giustizia.
Solo così potremo dire, con coerenza, di vivere in un Paese che misura la propria civiltà guardando alle sue carceri.



