Un boccone amaro, indigeribile, l’idea che le porte del carcere, dopo 25 anni, come previsto dalla legge, si siano spalancate per Giovanni Brusca detto lo “scannacristiani” , ex boss di Cosa Nostra considerato una belva sanguinaria dagli stessi complici di un tempo.
E non ci vuole molto per comprendere la tempesta che attraversa gli animi, la coscienza civile di una parte dell’opinione pubblica. Una tempesta che non si placa nemmeno quando Maria Falcone, sorella del magistrato, ucciso proprio da Brusca, spiega che il dolore non si cancella ma che quella sui collaboratori di giustizia è “una legge voluta proprio da Giovanni” per colpire e disarticolare la mafia.
Così, dopo 25 anni di detenzione e quattro di libertà vigilata Brusca ha saldato il conto con la giustizia. Saldato? Si stenta a crederlo, è un conto lunghissimo.
Porta la sua firma la strage di Capaci, costata la vita, nel 1992, a Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e agli agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Ma già nel 1983 il boss era stato tra gli autori di un’altra strage, quella in cui era stato ucciso il giudice Rocco Chinnici.
Brusca ha massacrato persone innocenti, servitori dello Stato, magistrati, poliziotti, carabinieri, ma anche appartenenti ai clan, quelli che non si erano piegati ai corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. E fu Brusca a dare l’ordine di sequestrare e poi uccidere il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di Santino, il primo mafioso a scegliere la via della collaborazione dopo l’attentato del maggio 1992. Si conta che per mano di Brusca, o per suo ordine siano state uccise 150 persone.
Alla fine, nel 1996, lo “scannacristiani” fu arrestato dalla polizia. Decise quasi subito di collaborare, ma con l’intenzione di “inquinare i pozzi”. Insomma, di fare il doppio gioco. Un piano pericolosissimo: tentò di screditare l’antimafia, uomini delle istituzioni, gli altri collaboratori di giustizia e provò a far saltare importanti processi contro Cosa Nostra. Ma fu smascherato. Il suo piano fallì. Alla fine, capì che doveva smetterla di barare.
Il suo nuovo percorso di collaborazione, passato letteralmente al microscopio, fu considerato credibile solo a partire dal marzo 2000. Dopo che ebbe confessato moltissimi delitti commessi da lui e dai corleonesi. Confessò anche di omicidi che erano stati programmati: come l’eliminazione dell’inviato del Tg2 Giuseppe ‘Joe’ Marrazzo: “una spina nel fianco per Cosa Nostra”, disse in aula al processo Pecorelli. Attentato sfumato perché Marrazzo si ammalò e morì. Brusca ha poi testimoniato anche sui rapporti tra Cosa Nostra e il mondo delle imprese, della politica. Rivelazioni sempre verificate scrupolosamente.
Ma possono quei 25 anni e il contributo dato dalla collaborazione con la giustizia cancellare, o sopire il dolore, rimarginare le ferite? No. Maurizio de Lucia, oggi procuratore della Repubblica di Palermo, già quattro anni fa, quando a Giovanni Brusca fu concessa la libertà vigilata, spiegava: “la legge sui collaboratori di giustizia si è rivelata uno strumento fondamentale nella destrutturazione delle mafie. Giovanni Falcone, che ne è stato l’ideatore, aveva ben presenti i costi sul piano della sofferenza per le vittime dei mafiosi che l’approvazione di una normativa del genere avrebbe comportato. Ma aveva anche chiaro quali danni alla mafia avrebbero e hanno fatto le collaborazioni di alcuni esponenti di vertice di Cosa nostra” .
Ed è necessario aver chiaro quello che è un vero e proprio paradosso tragico: se è vero che la legge voluta da Giovanni Falcone porta con sé una conseguenza agghiacciante, cioè, consente all’uomo che lo ha ucciso di uscire dal carcere, non si può escludere che il magistrato, mentre si batteva e studiava per dare strumenti veri alla lotta contro i clan, fosse consapevole di questo rischio sapendo di essere stato condannato a morte dalle cosche (e da tempo, come Paolo Borsellino)…
Casi come quello di Brusca devono invitare a discutere degli strumenti per combattere le mafie, che sono ancora qui, pericolose come prima. Discutere per fare meglio, non per smantellare quello che c’è.
E bisogna parlarne, nonostante si faccia di tutto per mettere in sordina l’esistenza della mafia anche quando ad uscire di carcere in “permesso” sono mafiosi, ergastolani che non hanno nemmeno fatto finta di collaborare con la giustizia.



