Il diritto alla verità e la sua tutela: fondamento giusfilosofico e prospettive di costituzionalizzazione

Giustizia cieca

“Che cos’è la verità?” (Giovanni, 18,38)
“Una domanda eterna che cade in un silenzio eloquente”
(Ponzio Pilato, che cos’è la verità?
a cura di Armando Torno con un intervento di Massimo Cacciari,
Bompiani, Milano 2007, pag.14)

Riflessioni etimologiche sul concetto di verità

Molto è stato scritto, e più autorevolmente, anche su questa rivista [1], sul tema in oggetto, la cui complessità deriva dai molteplici profili problematici e multidisciplinari perché coinvolge non solo aspetti giuridici ma anche etico-politici e sociali.

Questo scritto – che non intende ripercorrere, se non molto sinteticamente e nei limiti in cui sarà reso necessario dai percorsi argomentativi che saranno sviluppati, il complesso ed articolato sviluppo evolutivo della elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria sull’argomento – scaturisce dalla riflessione sulla opportunità o sulla esigenza di costituzionalizzazione, o almeno di un formale riconoscimento in una legge ordinaria, del diritto alla verità.

Il diritto alla verità – la cui configurabilità come autonomo “diritto fondamentale” è ancora oggi tema molto dibattuto – costituisce il risultato di una elaborazione giuridica nell’ambito del diritto internazionale umanitario come pretesa giuridicamente tutelata alla conoscenza della sorte dei propri congiunti e si ricollega geneticamente ai fenomeni di sparizioni forzate ed altre gravissime violazioni  di diritti umani, perpetrate o comunque favorite e/o tollerate in certi periodi storici da regimi politici repressivi in alcuni paesi dell’America Latina, tra i quali l’Argentina, il Cile, il Brasile e il Perù, per non tacere della Colombia dove il narco-paramilitarismo si è reso responsabile di terribili massacri oltre che del fenomeno del “desplazamiento”, cioè lo sfollamento forzoso di centinaia di migliaia di persone, nonchè della scomparsa di altre decine di migliaia spesso sepolte in fosse comuni o disperse nei fiumi.[2]

Ma dovrebbe aggiungersi anche il Messico, Paese in cui il fenomeno dei “desaparecidos”, vittime del sanguinoso scontro tra cartelli dei narcos e dei loro traffici illeciti (sfruttamento, anche minorile, della prostituzione, tratta di esseri umani e di organi ed altri crimini) ha ormai assunto livelli di violenza intollerabile, spesso con il coinvolgimento di elementi dell’esercito e di altri apparati di polizia corrotti o collusi e perfino del potere giudiziario.[3]

Il riconoscimento di tale diritto è entrato a pieno titolo nei principi ispiratori dell’impegno e dell’attività della Commissione Internazionale dei diritti dell’uomo, prevista dagli artt. 33 e segg. della Convenzione interamericana sui diritti umani (nota anche come Patto di San Josè), ma soprattutto nella giurisprudenza della Corte Interamericana dei diritti umani, prevista e disciplinata dagli artt. 52 e segg. di detta Convenzione, della Corte Edu e del Comitato per i diritti umani dell’ONU.

Può dirsi ormai acquisita alla coscienza collettiva la consapevolezza che il riconoscimento di tale diritto ed il suo concreto ed effettivo esercizio possano costituire il più efficace antidoto e la migliore garanzia contro le sempre più frequenti violazioni di diritti fondamentali.

Ma la costruzione di tale diritto e la sua giustiziabilità implicano la individuazione dei molteplici profili che ne connotano la struttura e la concreta articolazione.

È evidente, infatti, che il diritto alla verità, come diritto alla conoscenza del reale svolgimento di drammatici accadimenti, oggetto di indagini giudiziarie e processi che spesso non hanno fatto piena luce sugli stessi, si articola su diversi livelli di pretesa giuridica che chiamano in causa il doveroso impegno delle istituzioni a garantire:

  1. Scrupolo investigativo per la ricostruzione attendibile e veridica di gravissimi fatti;
  2. Accesso a documenti e prove idonei a far piena luce sulle modalità e sulle responsabilità di gravissime violazioni di diritti umani;
  3. riconoscimento di un diritto alla memoria per impedire l’oblio e contrastare, anche culturalmente, processi di rimozione collettiva; memoria, quindi, per favorire un autentico processo di conoscenza critica di certi fenomeni e per respingere tutti i tentativi di negazionismo;
  4. riconoscimento della dimensione collettiva del diritto alla verità ed alla memoria.

La riflessione su questi profili mi ha indotto ad alcune preliminari e brevi considerazioni sul concetto di verità partendo dal corrispondente termine greco alétheia (in greco antico: ἀλήθεια).

Devo riconoscere di essere stato sempre affascinato dalla etimologia di questo termine greco – efficacemente e ampiamente illustrata in un breve saggio da uno dei più apprezzati studiosi di filosofia antica che insegna all’università di Pisa [4] – la cui ricchezza e problematicità semantica offrono significativi spunti di riflessione per alcune considerazioni introduttive che vorrei sviluppare nel tentativo di delineare i presupposti giusfilosofici di un “diritto alla verità” e della sua tutela, sempre più frequentemente invocata unitamente alla giustizia, attraverso il ricorso alla ben nota endiadi “verità e giustizia”.

Traendo spunto dal saggio citato, rilevo che l’indagine etimologica su quel termine greco consente di allargare il campo della riflessione ed evocare anche i concetti di oblio, dimenticanza e correlativamente di “memoria”, termine quest’ultimo che negli ultimi tempi ha assunto un pregnante significato politico e sociale non solo per favorire la conoscenza di certi fatti e l’acquisizione di una coscienza critica, ma anche in funzione del contrasto ad alcune forme di negazionismo, perfino di fenomeni come la mafia o la Shoah.

La possibile ricostruzione del concetto di verità, come disvelamento, non latenza di fatti e avvenimenti estremamente gravi che hanno determinato la violazione di diritti fondamentali  (stragi, deportazioni, persecuzioni di oppositori politici, esecuzioni, torture e correlativi depistaggi ecc..) e che rischiano l’oblio – anche attraverso un processo di rimozione collettiva spesso favorito da difficoltà ma anche da inerzie o incapacità investigative quando non da collusioni e complicità di istituzioni deviate – ha radicato in me il fermo convincimento che ἀλήθεια sia il termine che meglio si presta ad una ricostruzione semantica ed etimologica del concetto di verità, nello specifico significato giuridico di verità storica e/o processuale, ed alla elaborazione di un diritto alla verità.

E tale idoneità ricostruttiva del fondamento giusfilosofico del concetto di verità ( rectius del “diritto alla verità”)  che va riconosciuta al termine greco – più di quanto possa il termine latino veritas [5], malgrado la più evidente e diretta derivazione etimologica da quest’ultimo – discende non solo dal ben diverso significato ma soprattutto dal fatto che certamente il termine latino non presenta quella ricchezza semantica ed etimologica di ἀλήθεια, che conferisce alla “veritas” dei greci una ben maggiore capacità evocativa e dimostrativa rispetto al percorso argomentativo che intendo sviluppare.

Una delle tesi più autorevoli e più condivisa è quella del filosofo tedesco Martin Heidegger secondo cui il termine in questione, che significa non essere nascosto, “non restare celato”, risulterebbe formato da alpha privativo e da derivati del verbo lanthànein, (greco antico: λανθάνειν), che significa ciò che è nascosto, celato e quindi la verità esprimerebbe la situazione di non-latenza, non-velatezza, svelamento, ciò che non è nascosto.[6]

In questo senso la condizione di non-latenza sarebbe riferibile all’essere ed al suo disvelamento più che ad una qualità o condizione del giudizio.

Nel corso del tempo a questa concezione ontologica della ἀλήθεια “si sostituisce quella della verità come corrispondenza della rappresentazione con la cosa”, sicchè la verità diventa una qualità o “una proprietà della rappresentazione e della proposizione e del giudizio: vero o falso è il discorso o la rappresentazione che si riferisce alla realtà”. [7]

Aristotele utilizzava l’aggettivo “apofantico” per esprimere la suscettibilità di un enunciato di essere qualificato in termini di verità o falsità: sono tali gli enunciati dichiarativi.

Ma si è osservato [8] che il vero,” ἀληθές, può derivare dalla negazione di λήθov, verbo il cui significato è “sfuggire alla attenzione”, prima che, come suggerisce λήθη in ἀλήθεια, quello di “dimenticare, obliare”.

Se si consulta un dizionario di greco antico si potrà verificare come la voce λήθω rinvia a λανθάνω.

Sul piano semantico il verbo λανθάνειν indica, piuttosto, anche lo sfuggire all’attenzione, ciò che passa inosservato e in questa prospettiva ἀληθές in quanto negazione λανθάνειν, indica ciò che non è sfuggito all’attenzione, ciò che colloca ἀλήθεια in una dimensione soggettivistica.

“Dire la ἀλήθεια non significa solo dire qualcosa che semplicemente corrisponde alla realtà ma “fornire un resoconto non omissivo, dettagliato, che non lascia sfuggire nulla di ciò che deve essere detto; un resoconto che in linea di principio può fornire solo chi sia stato diretto testimone degli eventi” e la correlazione con il verbo καταλέγειν esprime la completezza di un resoconto ed in ultima analisi il non aver mentito [9].

Sotto tale profilo, data la completezza che si esige nei confronti della ricostruzione dei fatti, il concetto di alètheia come resoconto non-omissivo, che rappresenta un vero e proprio diritto per le parti e/o per il corpo sociale (quando ad esempio un atto criminale o un depistaggio, come nelle stragi e analoghi, ledono non solo le parti direttamente in causa, ma anche il diritto alla verità dei cittadini tutti) risulta, in ambito giuridico, molto più rappresentativo del concetto di veritas.

Si verifica quindi uno “spostamento semantico” verso il significato di resoconto corrispondente alla realtà, nel senso di conformità al vero, sicchè è falso ciò che non è conforme alla realtà.

Accanto ad una dimensione oggettiva come negazione dell’essere latente si affianca, quindi, una dimensione soggettivistica nel senso di non sfuggire alla attenzione, non tralasciare, riferire in modo dettagliato.

Ciò chiama in causa la memoria e correlativamente l’oblio e la dimenticanza (λήθη), ma anche il tralasciare, passare sotto silenzio. [10]

Un’altra sfumatura semantica suggerisce che ciò che non sfugge all’attenzione evoca l’evidenza di un fatto, sicchè la verità esprime una dimensione ontologica, verità come realtà, come proprietà oggettiva degli enti più che una verità di tipo proposizionale riferibile al soggetto che lo espone ed in questo senso è riscontrabile l’uso platonico del termine.

Anche in Platone, accanto ad una nozione di verità come conformità (verità logica) persiste quella “coalescenza” tra realtà e verità che porta a riferire alètheia agli enti prima che al giudizio (verità ontologica). [11]

Ma accanto a questo significato di verità ontologica v’è, dunque, anche una verità come proprietà del giudizio, come corrispondenza.

Se ἀληθές è ciò che non sfugge all’attenzione, le cose o il fatto non sono di per sé  ἀλήθη ma lo diventano in relazione alla completezza del resoconto fatto dal soggetto, ciò che evidenzia la prospettiva soggettivistica in cui si colloca ἀλήθεια

Senza ripercorrere l’articolato tessuto argomentativo elaborato nel saggio filologico  sopra richiamato, molto sinteticamente, ai fini che qui interessano, si possono quindi individuare due profili del concetto di verità: uno che attiene ad una qualità degli enti o delle cose, per cui si parla di verità ontologica; l’altro che esprime una qualità del giudizio, del logos, nel senso di conformità di una proposizione alla realtà, per cui si parla di verità logica, concetto, questo, che sul piano storico-filologico corrisponde a quello greco delle origini, dove la verità logica prevale su quella ontologica. [12]

È evidente, dunque, che il concetto greco di alètheia illumina aspetti che sfuggono alla nozione tradizionale di verità e lo stesso vale per gli aspetti legati alla memoria e che sono più presenti nella concezione greca arcaica (il resoconto non omissivo non deve dimenticare nulla). [13] 

È proprio questa straordinaria capacità evocativa di concetti variamente connessi alla radice etimologica di ἀλήθεια (verità, falsità, oblio, memoria, completezza espositiva del racconto) che conferisce a quel termine greco una particolare idoneità ad esprimere, sul piano giuridico, la pretesa alla ricostruzione veridica di fatti che hanno gravemente pregiudicato la possibilità di esercizio di diritti fondamentali.

Quanto più questa pretesa appare legittima e funzionale al concreto esercizio di tali diritti, tanto più il dovere di disvelamento grava su istituzioni pubbliche, quali in primo luogo quelle giudiziarie e investigative.

Ancora una volta ci soccorre il pensiero del mondo classico ed in particolare il rapporto tra il dire il vero e l’esercizio del potere, la parrhèsia, termine al quale Michel Foucault ha dedicato un importante studio [14], considerandolo come una nozione etica  (etica della verità) e politica, come ciò che consente ad un uomo di avere il coraggio di dire qualcosa di importante e pericoloso contro il potere costituito in nome della verità.

La parresia, che etimologicamente significa “dire tutto”, fu una caratteristica essenziale della democrazia ateniese, un’idea guida, un “requisito del discorso pubblico”.

“Nella parresia il parlante fa uso della sua libertà, e sceglie di parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece della adulazione e il dovere morale invece del proprio tornaconto personale o dell’apatia morale”.

Una “caratteristica della parresia è che in essa il dire la verità è considerato un dovere. …. La parresia è dunque connessa con la libertà e il dovere”

Ma anche sul piano giudiziario, oltre che politico-sociale, questo coraggio va riconosciuto a chi invoca verità e giustizia, soprattutto se sono chiamate in causa istituzioni sulle quali grava un dovere di verità, talvolta negata perché ostacolata attraverso depistaggi, false dichiarazioni, ostruzionismi e rifiuto di fornire un contributo probatorio all’accertamento dei fatti.

La parresia giudiziaria consiste proprio nel pretendere che si dica il vero per ottenere giustizia.

Verità storica e verità processuale

La consapevolezza dei limiti processuali che possono impedire l’accertamento dei fatti da provare ha determinato la necessità di accettare che un enunciato dichiarativo che assuma provato un fatto possa rivelarsi falso, nel senso che “possono considerarsi provati enunciati falsi” [15].

L’eventualità che l’accertamento processuale di un fatto non corrisponda al reale accadimento del fatto stesso ha indotto la dottrina ad elaborare la distinzione tra verità formale o giudiziale o processuale e verità materiale o reale detta anche storica.[16]

Non può essere sottaciuto, tuttavia, che nella prima metà del XX secolo la distinzione tra verità formale e verità materiale è stata avversata da molti autori tra i quali Carnelutti il quale con riferimento al concetto di verità formale sosteneva che : non si tratta qui che di una metafora: nella sostanza è affatto agevole  osservare come la verità non possa che essere che una, onde la verità formale o giuridica o non coincide con la verità materiale, e non è verità, o ne diverge, e non è che una non verità. [17]

La riflessione nell’ambito della epistemologia giudiziaria si è arricchita di un ulteriore concetto, quello di “verità convenzionale”, sicchè la verità processuale costituisce un “quid medium” tra verità storica e verità convenzionale. [18]

Secondo questa tripartizione la verità storica è l’utopia del processo nel senso che il processo “perfetto” è quello che fornisce un risultato coincidente con il normale svolgimento dei fatti.

Diverso è il concetto di “verità convenzionale” che esprime il risultato di un accordo tra le parti che dà luogo alla c.d. giustizia negoziata la quale, inizialmente correlata ai riti alternativi ed alla logica premiale che vi è sottesa, ha finito per inserirsi nella dinamica delle prove e nella attuazione della acquisizione concordata di atti di indagine.

Non sempre la giustizia negoziata conduce alla verità storica; la verità convenzionale pure sotto il profilo epistemologico può essere anche una non-verità.

Concetto intermedio è quello di verità processuale che esprime i limiti di un processo di accertamento connessi con le regole di acquisizione probatoria, talora di esclusione, a tutela di diritti fondamentali della persona.

La verità processuale è condizionata da limiti epistemologici ed etici.

Ma mentre gli anzidetti limiti appaiono comunque funzionali ad assicurare la tendenziale coincidenza tra verità processuale e verità storica, gli ostacoli, le omissioni e i depistaggi, spesso istituzionali, funzionali a distorcere la verità, precludendone l’accertamento, si collocano in una dimensione diametralmente opposta a quella tipicamente epistemica del processo per impedire la ricerca oggettiva della verità.

La scoperta della verità è un fine essenziale del processo penale ed è una condizione necessaria di giustizia della decisione. [19]

In tale prospettiva la violazione del diritto alla verità, sub specie degli ostacoli deliberatamente frapposti al suo accertamento, si risolve anche in una violazione del “diritto alla prova” che viene ormai comunemente riconosciuto come una delle manifestazioni più importanti delle garanzie fondamentali relative al diritto di agire e difendersi provando in giudizio

Il diritto alla verità e la sua tutela giurisdizionale: fondamento giusfilosofico.

Come è noto, in concomitanza con l’avvio dei processi di democratizzazione a seguito della caduta di regimi dittatoriali in America Latina, il diritto alla verità e la sua tutela giurisdizionale hanno cominciato ad assumere le connotazioni di un diritto fondamentale – con specifico riferimento alla pretesa di conoscere la sorte di persone scomparse, in quanto vittime di sparizioni forzate e di altre gravi violazioni della integrità personale (torture, maltrattamenti ecc.) – la cui titolarità negli ultimi decenni, grazie alla elaborazione giurisprudenziale della Corte Interamericana dei diritti umani  e della Corte Edu, è stata attribuita non solo alle vittime e ai loro familiari, ma anche alla collettività nel suo insieme.

La conoscenza della verità sulle più gravi vicende che hanno determinato una violazione dei diritti umani rappresenta un elemento essenziale per l’identità collettiva di un Paese e non può non evocare quella “verità ontologica” che conferiva alla ἀλήθεια quella connotazione di conformità al reale.

Ma qui, l’atteggiarsi di questo particolare diritto come diritto fondamentale che coinvolge i profili della dignità e della libertà, impone una coincidenza della dimensione ontologica e di quella logica, nel senso che non solo si riconosce al suo titolare il diritto alla conoscenza del reale svolgimento dei fatti ed il loro disvelamento come pretesa a tutto quanto necessario a slatentizzare ciò che è accaduto, ma anche il diritto ad un “resoconto non omissivo, dettagliato e veridico che non lascia sfuggire nulla di ciò che deve essere riferito”, conformemente a quello spostamento semantico, sopra chiarito, verso il significato di verità come resoconto corrispondente alla realtà, quindi conforme al vero.

Ancora una volta emerge in tutta la sua evidenza il profilo del “disvelamento” di gravissimi crimini contro l’umanità cui corrisponde il dovere degli Stati e delle sue istituzioni giudiziarie di indagare, punire i colpevoli e risarcire le famiglie.

Ma questo diritto non ha solo una dimensione individuale riferibile alle vittime e a loro stretti congiunti, ma assume una dimensione collettiva nella prospettiva di rendere conoscibili i fatti accaduti favorendo in tal modo la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, la convivenza democratica e la attualizzazione di un diritto fondamentale: la dignità umana, che costituisce un valore pregiuridico che inerisce alla natura umana, e che ha finito per assurgere a diritto fondamentale, riconosciuto nelle più solenni dichiarazioni elaborate dalla comunità internazionale.

La circostanza che sempre più frequentemente Corti sovranazionali e Corti costituzionali di singoli Stati abbiano riconosciuto il diritto alla verità, nella sua duplice dimensione individuale e collettiva, correlandolo alla dignità umana, impone di svolgere alcune considerazioni su quest’ultimo concetto come valore fondante della persona.

La nozione di dignità, fin da quando, a partire dal mondo classico, ha assunto una rilevanza filosofica, quale attributo della persona umana, è stata impiegata in un duplice significato.

In una prima accezione essa ha espresso “la posizione speciale dell’uomo nel cosmo” e, sotto altro profilo, “la posizione da lui ricoperta nella vita pubblica”.[20]

Appare evidente come nel primo significato la dignità designi una dimensione ontologica e nel secondo indichi un valore.

La dignità, quindi, esprime la specificità della natura dell’uomo, rispetto a tutti gli altri esseri viventi, quale unico “animale razionale”, ma al contempo esprime la sua identità e differenza rispetto agli altri uomini “per il ruolo attivo che egli svolge nella vita pubblica e che gli conferisce un particolare valore”.

Mentre per Hugo Grozio, considerato il padre del giusnaturalismo moderno o giusrazionalismo, è il rispetto nei confronti del cadavere a conferire all’essere umano la sua dignità, per Thomas Hobbes “il pregio pubblico di un uomo, che è il valore attribuitogli dallo Stato, è ciò che gli uomini chiamano comunemente dignità. Questo suo valore è significato (is understood) dallo Stato con cariche di comando, di giudicatura, di pubblici impieghi o con i nomi e i titoli introdotti per la distinzione di tale valore”.[21]

Il primo significato di dignità assume una connotazione universalistica e si atteggia quasi come una dote naturale di ciascun uomo.

La dignità è strettamente connessa con l’idea di libertà negativa (libertà da), come diritto a non subire interferenze anche da parte dei pubblici poteri nel perseguimento dei propri fini e nella realizzazione della propria personalità.

L’idea di libertà che contraddistingue l’essere umano è presente anche in S. Pufendorf secondo cui è proprio la libertà morale dell’uomo, non la sua natura in quanto tale, a conferirgli dignità, la quale è insita nella sua condizione di soggetto morale agente, unico essere in grado di imporre limiti al proprio agire attraverso leggi che egli stesso si è dato.[22]

È appena il caso di rilevare che questa concezione della dignità espressa da Pufendorf anticipa quella elaborata da una delle massime espressioni teoriche dell’illuminismo europeo, vale a dire la filosofia kantiana e la sua concezione dell’uomo come appartenente ad un regno dei fini: l’uomo possiede un valore intrinseco in quanto portatore di un imperativo morale incondizionato.

Un elemento centrale di questa concezione della libertà è l’idea del “riconoscimento reciproco” dei membri di una comunità come liberi ed uguali.[23] 

Una dei più autorevoli riconoscimenti del valore universale della persona umana e della sua intrinseca dignità ci proviene dalla famosa formulazione Kantiana dell’imperativo categorico, che afferma l’obbligo morale di trattare gli esseri umani sempre come fini e mai soltanto come mezzi, ciò che esprime il dovere di agire in modo tale da rispettare la dignità dell’essere umano, dovere che costituisce un principio universalizzabile.[24]

Per Kant dignità significa, dunque, che l’uomo “è un essere in grado di agire moralmente seguendo cioè i dettami di una ragione universalmente legislatrice”[25].

In quella formulazione non è invece espresso il bisogno, proprio di ogni essere umano, di essere riconosciuto in quanto tale, pena la sua esistenza.

In altri termini, mentre Kant sostiene l’universalità e la necessità del principio morale di agire per dovere in modo degno di un essere umano e di agire trattando gli altri esseri umani come fini in sé, cioè riconoscendo la loro dignità e umanità, un’altra impostazione teorica[26] pone l’accento sulla universalità e necessità dell’esperienza soggettiva di ogni essere umano di essere riconosciuto dagli altri nella propria umanità in quanto soggetto capace di libertà. Senza il riconoscimento intersoggettivo della propria umanità, non c’è umanità.

Questo riconoscimento è la condizione di possibilità affinchè ogni essere umano esista come tale e “questa esigenza è una necessità esistenziale”.

Ma, a mio avviso, meritano di essere condivise quelle più moderne elaborazioni teoriche secondo cui la ricerca di un fondamento filosofico della dignità umana non può prescindere dalla sua dimensione relazionale come “fondativa della soggettività e degli stessi diritti e doveri che la caratterizzano”.[27]

La necessità di ricondurre il concetto di dignità alla struttura relazionale della persona umana deriva dal rilievo che esso “può essere compreso solo attraverso la rete concreta dei riferimenti sociali e culturali in cui ciascun soggetto è inserito e attraverso cui realizza la propria umanità”

“Nella prospettiva relazionale, dunque, l’individuo umano si presenta come un essere la cui stessa identità è ricavata dalla rete di rapporti che intrattiene con i suoi simili. Su questa base è possibile riformulare in termini relazionali la connessione tra dignità e umanità.”[28]

Dal riconoscimento reciproco emerge il senso originario della dignità: in questo spazio intersoggettivo “l’altro fa valere le medesime pretese di dignità che ciascuno rivendica per sé” ed “è proprio la rivendicazione reciproca della dignità a partire dalla relazione intersoggettiva a costituire e salvaguardare la specificità dei singoli.”

Si è sostenuto che le teorie sulla dignità umana si distinguono in due categorie: “quelle che legano questo valore morale a determinate caratteristiche ontologiche e quelle che lo fanno dipendere da fattori progressivi che intervengono nello sviluppo storico dell’essere umano. Le prime sono state chiamate ‘teorie della dotazione’, le seconde ‘teorie della prestazione’. Per le prime la dignità umana è un possesso originario, per le seconde è il risultato dell’agire umano, una conquista della soggettività umana che si costruisce una propria identità” [29]

Ma c’è un altro specifico profilo della dignità che merita di essere rilevato e che deriva dallo stretto legame esistente tra le nozioni di dignità e persona, in forza del quale, secondo Kant, la dignità costituisce un attributo esclusivo della persona umana in virtù della sua “unicità”: infatti, solo l’unicità può renderla, in quanto persona, incomparabile e perciò irriducibile a tutto ciò che ha un prezzo.

La dignità, che è venuta assumendo sempre più la funzione di limite invalicabile per la salvaguardia dei diritti fondamentali, è assurto a principio giuridico universale e incondizionato attraverso cui i contenuti di tutti i diritti fondamentali, da intendersi a loro volta come diritti umani positivizzati e costituzionalizzati, possano attingere  ad una “fonte morale”, dunque dì per sé esterna all’ordinamento, ma presente e accettata nel corpo vivo della società, nella sua cultura e nei suoi valori condivisi.

Il sempre più frequente riferimento a questo valore fondante nelle convenzioni internazionali, nelle leggi e nelle sentenze ha spinto Stefano Rodotà a proporne una lettura che vede la dignità come una “sintesi di libertà e uguaglianza”, rafforzate dall’essere il fondamento della democrazia, come conseguenza del processo di costituzionalizzazione del principio di uguaglianza che ha fatto segnare un ulteriore passaggio dall’homo aequalis a quello dignus.

In una bellissima lectio doctoralis tenuta all’università di Macerata nel 2010, poi trasfusa integralmente in un capitolo del saggio dal titolo “il diritto di avere diritti” [30] dedicato all’homo dignus ed a quella che lui chiama la “rivoluzione della dignità”, l’insigne giurista illustra l’evoluzione storico-giuridica del passaggio dal “soggetto” alla “persona” e l’affermarsi di una nuova antropologia espressa attraverso la costituzionalizzazione della persona [31].

La nostra costituzione, approvata il 22/12/1947 ed entrata in vigore il 1° gennaio del 1948, richiama espressamente il concetto di dignità negli artt. 3, 36 e 41.

-Art. 3: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge;

-Art. 36: retribuzione sufficiente ad assicurare una vita libera e dignitosa;

-Art. 41 : iniziativa privata libera, ma non deve svolgersi in contrasto con la utilità sociale nè in danno della libertà, sicurezza e dignità umana;

Un anno dopo veniva approvata la dichiarazione universale dei diritti umani che integra l’antica formula settecentesca della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 che all’art.1 proclamava: Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune.

Sebbene l’idea kantiana del riconoscimento del valore morale della persona, intesa come fine in se stessa, abbia favorito l’abolizione della tortura ed il superamento di pene umilianti e crudeli, tuttavia nelle celebri dichiarazioni settecentesche dei diritti dell’uomo e del cittadino il concetto di dignità non compare ancora né nella “Dèclaration des droits de l’homme et du citoyen” del 1789 [32], né nella “Declaration of independence” del 1776.

Quella nozione tardò ad assumere rilevanza giuridica; bisognerà infatti attendere la fine della seconda guerra mondiale per una definitiva legittimazione giuridica, sebbene Hegel, nei suoi Lineamenti di filosofia del diritto, “concependo il dovere di rispettare gli uomini come imperativo giuridico ponga già le premesse per il suo disvelamento”. [33]

Ed infatti, la vera novità del costituzionalismo dell’ultimo dopoguerra, con la sua carica di dirompente valore promozionale ed emancipativo, fu costituita dal principio di dignità.

L’art. 1 della “Dichiarazione universale dei diritti umani”, proclamata dall’assemblea generale delle nazioni unite a Parigi il 10 dicembre 1948 segna una vera rivoluzione giuridica, politica e culturale nel segno della centralità della persona umana e della sua dignità, affermando solennemente che:

Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

La costituzione tedesca (23/5/1949) esordisce con le parole: “La dignità umana è intangibile. E’ dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla”.

L’immediato riferimento alla tutela della dignità umana è ovvio e comprensibile, poiché i tedeschi elaborarono la loro Costituzione dopo l’esperienza dei campi di concentramento e, pertanto, avvertirono come prioritaria l’esigenza di conferire alla dignità della persona una centralità fondante rispetto al sistema dei valori e dei diritti costituzionalmente tutelati.

E’ fin troppo evidente la ragione per la quale proprio la carta fondamentale di quel Paese – in cui fu consumata la più spietata e sistematica umiliazione e persecuzione degli uomini, per la loro fede  religiosa, per la loro appartenenza etnica, per le loro opinioni politiche e perfino perchè affetti da inguaribili malattie mentali – sia stato uno dei primi documenti in cui il forte richiamo alla tutela della dignità umana, come reazione ai crimini contro l’umanità del regime nazista, fosse inserito nel primo articolo perchè acquistasse un ruolo di assoluta preminenza[34].

  In tal modo il riconoscimento della dignità umana assume il rilievo fondante di “una sorta di “grundnorm” di kelseniana memoria, posta al vertice dell’ordinamento giuridico”, che si atteggia, secondo l’opinione più diffusa tra i costituzionalisti tedeschi, come una “ norma giuridica oggettiva” piuttosto che come un “diritto soggettivo fondamentale e proprio per questo incondizionata, non sottoponibile cioè, a differenza di altri diritti fondamentali, a ponderazioni e limitazioni.” [35]

Ciò che appare particolarmente significativo e meritevole di essere sottolineato è il fatto che nella disposizione citata compare un nuovo aggettivo, dotato di univoco valore sintomatico, per qualificare la dignità umana.

Ed invero, rispetto ai diritti fondamentali che tradizionalmente sono “inviolabili e inalienabili”, la dignità è ora qualificata “intangibile”.

Ma quella norma guarda al futuro e costituisce non solo un monito ma anche una precisa disposizione prescrittiva al punto che l’art. 79, comma 3 della legge fondamentale tedesca, stabilisce la sua immodificabilità, confermando in tal modo l’assolutezza di quel principio non suscettibile, quindi, neppure di revisione costituzionale.

Trattasi all’evidenza del fenomeno dell’eterno ritorno del giusnaturalismo e dei suoi principi che vengono ora positivizzati attraverso la loro costituzionalizzazione e non deve sorprendere che proprio in Germania il dibattito sulla rinascita del diritto naturale attraverso il riconoscimento della dignità umana sia stato particolarmente fecondo.

Auschwitz ha prodotto la rinascita del giusnaturalismo e la crisi del positivismo giuridico – secondo cui il diritto valido è il diritto positivo che in quanto tale va obbedito anche se ingiusto – al punto che un giurista positivista, Gustav Radbruch, già ministro della repubblica di Weimar e oppositore del nazismo, dopo la seconda guerra mondiale e negli anni del processo di Norimberga contro i gerarchi nazisti, rivide le sue posizioni su un punto essenziale: il diritto positivo resta diritto e va obbedito anche se ingiusto ma non quando esso diventi intollerabilmente ingiusto.

Il principio secondo cui ogni essere umano deve valere innanzitutto come persona uguale a qualsiasi altra persona diventa il motivo dominante della stagione postbellica e assume il valore di principio etico assoluto, pregiuridico e prepositivo.

Il cammino costituzionale della dignità ha il suo approdo nella Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea del 2000, che si apre all’insegna della dignità nell’art.1 secondo cui “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata.”

Il tema della dignità “si è sempre più identificato non tanto con una essenza o natura dell’uomo quanto piuttosto con le modalità della sua libertà e uguaglianza”[36].

Ed invero in apertura del preambolo della dichiarazione dell’ONU si legge “Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”.

Primo Levi ci ha ricordato che “per vivere occorre una identità ossia una dignità”. [37]

Oggi la dignità si atteggia come progetto di vita che si specifica ulteriormente nel concetto di autodeterminazione che la Corte Costituzionale ha qualificato come diritto fondamentale. (sentenza n. 438 del 2008).

Uno dei massimi studiosi di diritti umani, la ginevrina Jeanne Hersch, che ha dedicato gran parte della sua opera alla elaborazione di una filosofia dei diritti umani, in un pregevole saggio, già sopra citato [38], dal titolo “I diritti umani dal punto di vista filosofico”, ha sostenuto che la proprietà essenziale dell’essere umano è la capacità di libertà.

L’attualizzazione della capacità di libertà e l’affermazione della propria esistenza come essere umano sono una esigenza assoluta: se impedito nell’esercizio della sua libertà e umanità l’essere umano può perfino decidere di morire. (Antigone ne è l’esempio più noto).

Un altro concetto fondamentale della elaborazione teorica della grande studiosa è che questa capacità di libertà è universale perché essa è la proprietà costitutiva di ogni esser umano e perché ogni essere umano vuole essere riconosciuto in questa sua capacità.

Nel pensiero di un’altra grande intellettuale, paladina dei diritti umani, Simon Weil, assume una indiscussa centralità il rispetto che è dovuto a «ogni essere umano, senza eccezione», per il solo fatto che è un essere umano.

Nel breve ma intenso saggio [39] sugli “obblighi verso l’essere umano” la filosofa francese costruisce la sua visione etica intorno al rapporto tra l’obbligo e il bisogno nel senso che ogni bisogno è l’oggetto di un obbligo; e, viceversa, ogni obbligo ha per oggetto un bisogno.

Ed a proposito della verità afferma che “L’anima umana ha bisogno di verità e di libertà di espressione. Il bisogno di verità esige che tutti abbiano accesso alla cultura dello spirito senza esservi né materialmente né moralmente trapiantati. Esige che non si eserciti mai, nell’ambito del pensiero, alcuna pressione materiale o morale che scaturisca da una preoccupazione che non sia esclusivamente quella della verità”.

Orbene è significativo che l’evoluzione della elaborazione giurisprudenziale sovranazionale e nazionale del diritto alla verità abbia, nei suoi approdi più recenti, connesso tale diritto alla dignità della persona.

Non solo quella dei soggetti vittime in prima persona di gravissime violazioni dei diritti fondamentali e dei loro congiunti, ma anche una dignità della collettività, e quindi dell’intero Paese, cui deve essere riconosciuto il diritto a conoscere la verità.

In questo senso la sentenza del tribunale di Palermo n.4067/2011, che ha riconosciuto il diritto dei familiari delle vittime del disastro di Ustica al risarcimento del danno non patrimoniale “derivante dagli ostacoli all’accertamento delle cause del sinistro  e quindi alla identificazione  degli autori materiali del reato di strage che sono potuti restare impuniti”, ha attribuito rilevanza costituzionale a quel diritto ed alla connessa pretesa risarcitoria sotto il profilo dell’ostacolo allo sviluppo della loro personalità tutelato dall’art. 2 della costituzione

Ma la stessa sentenza ha ravvisato una dimensione collettiva dell’interesse sotteso al diritto alla verità, nel senso che la condotta dello Stato, nella misura in cui non ha consentito il corretto ed efficace svolgimento della funzione giudiziaria, ha violato non solo i diritti dei singoli ma anche la “dignità dell’intero paese” in violazione del principio del buon andamento di cui all’art. 97 cost.

Certamente tale approdo ermeneutico è stato favorito dalla specificità della vicenda  e dalla natura plurioffensiva di quel gravissimo disastro aereo rispetto alla sentenza del tribunale di Roma n.1609/2028 che ha condannato il Ministero della difesa al risarcimento dei danni non patrimoniali in favore della moglie e dei figli per la scomparsa di un sottufficiale della Marina Militare, riconoscendo che i comportamenti omissivi ed ostruzionistici di quel dicastero avevano gravemente violato il diritto degli stretti congiunti a conoscere la verità sulla sorte del loro congiunto, presumibilmente rapito per le sue competenze altamente specialistiche in materia di tecnologie utilizzate nelle c.d. guerre elettroniche.

La sentenza (cfr. pag. 15) ha riconosciuto “la titolarità in capo agli attori del diritto a chiedere ed ottenere – dai soggetti che le detenevano- ogni notizia e ogni informazione relativa al loro congiunto, Davide Cervia, al fine di individuare le ragioni della sua scomparsa”.

Secondo il tribunale tale diritto autonomo “è ravvisabile ex se, appartiene alla sfera dei diritti personalissimi cui fa riferimento la Costituzione, all’art.2, ed è contenuto nell’ art. 21 della Carta Costituzionale. E’ dunque una situazione soggettiva di rango costituzionale, funzionale all’effettiva attuazione della piena e libera estrinsecazione della personalità dell’individuo”.

Tale diritto alla conoscenza “va configurato come diritto di acquisire, senza ostacoli illegittimamente posti, informazioni e conoscenze ritenute utili o necessarie, sia in sé, sia quali precondizione per l’esercizio di altri diritti fondamentali.”.

Ha quindi riconosciuto che ogni attività, fatto o comportamento che, senza un’adeguata giustificazione che trovi fondamento in altri principi costituzionali, impedisca, limiti, o condizioni l’acquisizione di informazioni siffatte, lede, conseguentemente, quel diritto.

“Le conseguenze dannose delle condotte anzidette vanno ravvisate nel pregiudizio di natura non patrimoniale per gli attori derivante dalla lesione e violazione di diritti e principi di rango costituzionale. La situazione di profonda incertezza e disorientamento conseguente al mancato tempestivo ottenimento di ogni completa ed esatta informazione circa il proprio congiunto, al fine di poter compiutamente valutare le ragioni della scomparsa e orientare scelte e comportamenti, non è revocabile in dubbio, così come deve ritenersi che la spinta verso la conoscenza di quelle ragioni abbia caratterizzato l’esistenza e la personalità dei familiari di Davide Cervia, canalizzando sforzi ed energie, fino alla costituzione di un’associazione a tanto finalizzata.”(cfr. pag.27 sent. cit).

Nella sentenza si dà atto che, sotto altro profilo, i ricorrenti avevano dedotto a sostegno dell’invocato diritto alla verità ed alla giustizia anche il principio del corretto svolgimento della funzione giurisdizionale nonché il principio di efficienza, imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui agli artt 111 (giusto processo) e 97 cost., ma sul punto la sentenza non sembra prendere posizione in ordine a detti ulteriori profili, avendo chiaramente privilegiato una dimensione più ampia del diritto alla verità rispetto a quella più specificamente procedurale con il richiamo al concetto di dignità cui tuttavia ha omesso di riconoscere una dimensione collettiva riferibile all’intero Paese, diversamente dalla sentenza del tribunale di Palermo n. 4067/2011 sulla strage di Ustica richiamata dai ricorrenti.

Ciò che rileva, tuttavia, è che sulla scorta della evoluzione della elaborazione giurisprudenziale delle corti sudamericane il diritto alla verità è stato riconosciuto anche nel nostro ordinamento giuridico ancorandolo al quadro normativo costituzionale sia con il richiamo all’art. 2 che all’art. 21, sotto il profilo del diritto alla libera manifestazione del pensiero ed al correlativo diritto ad una corretta e completa informazione.

Ma non meno importante è il richiamo alla dignità come progetto di vita e realizzazione della personalità non solo delle vittime di gravissime violazioni di diritto umani, primo fra tutti il diritto alla vita, ma anche dei familiari il cui bisogno di verità circa la sorte dei loro congiunti costituisce condizione imprescindibile per lo sviluppo della propria personalità.

Non v’è chi non veda come il dovere di fornire elementi di prova e informazioni (un “resoconto non omissivo e dettagliato”) evoca la violazione di tutti quei doveri istituzionali che spesso sul piano investigativo hanno precluso irrimediabilmente l’accertamento della verità a causa di comportamenti omissivi e/o commissivi spesso dolosi.

Per le ragioni sopra esposte appare davvero straordinaria la capacità dimostrativa del termine alètheia, nel senso di idoneità rappresentativa o evocativa della osservanza (o della violazione) di doveri istituzionali di informare correttamente, così consentendo di delineare un quadro ricostruttivo dei fatti quanto più possibile aderente alla realtà fattuale.

Sotto tale profilo appare emblematica la ricostruzione delle gravi omissioni e della mancata collaborazione da parte della Aeronautica Militare, del Ministero della difesa e del Ministero dei trasporti operata nella motivazione della sentenza del 19/9/2011 del tribunale di Palermo relativa al disastro aereo di Ustica con particolare riferimento, per esempio, alla mancata consegna di nastri contenenti registrazioni radar e agli ostacoli frapposti all’accertamento delle cause del sinistro (mancata collisione o missile in relazione alla presenza di altri velivoli in uno scenario di guerra sulla scia del DC 9 ovvero esplosione di ordigno collocato all’interno dell’aereo civile ?).

Lo stesso dicasi per la accertata distruzione di documenti effettuata da un poliziotto durante una perquisizione presso l’abitazione dell’agente Antonino Agostino, ucciso insieme alla moglie il 5 agosto del 1989  in Villagrazia di Palermo , ricostruita nella sentenza n.4611/2021 del tribunale di Palermo che ha riconosciuto la violazione del diritto alla verità, “attraverso la negazione della possibilità di ricostruire  le vicende che hanno interessato le persone care”, ravvisando in quella condotta una “forma di lesione della dignità della persona” e quindi “anche una offesa contro la pietà dei defunti” .

In che modo la mancata conoscenza della verità circa la sorte di un proprio congiunto può risolversi in una lesione della propria dignità, quale diritto fondamentale costituzionalmente riconosciuto?

Se la dignità si atteggia come una sintesi di libertà ed uguaglianza in quanto progetto di vita e se la proprietà essenziale dell’essere umano è la capacità di libertà, nel senso di autodeterminazione e affermazione della propria personalità, appare evidente che la negata possibilità di conoscere la verità costituisce fonte di gravissimi danni esistenziali, sia sul piano emozionale-affettivo, sia sotto il profilo dell’impegno profuso  nella sua lunga ed estenuante ricerca come nei casi non infrequenti di vicende processuali  travagliate che si protraggono per decenni.

Gli ostacoli frapposti all’accertamento della verità attraverso inefficienze, ostruzionismi, inerzie, condotte omissive e commissive di natura dolosa o colposa, depistaggi e favoreggiamenti, imputabili alle istituzioni nelle sue varie articolazioni ed ai suoi organi violano il diritto alla piena e libera estrinsecazione della personalità dei soggetti titolari di quel diritto negato.

Ed invero, l’angosciosa ricerca della verità con i mezzi a disposizione di una parte privata a fronte di ostacoli, spesso istituzionali nel senso sopra precisato, non solo rende impari e vanifica gli sforzi profusi, ma finisce per condizionare negativamente, fino a precluderne la concreta attualizzazione, ogni progetto di vita, immolato sull’altare di quella disperata ricerca per la quale spesso si è disposti a sacrificare la propria esistenza e le proprie risorse economiche.

Questa mortificazione e frustrazione di una legittima pretesa di conoscenza integra la grave lesione di un inviolabile diritto fondamentale riconducibile agli artt. 2 e 3 della costituzione, al quale può aggiungersi un ulteriore profilo che attiene al diritto di essere informati quale speculare aspetto del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (art. 21 cost).[40]

La tutela ed il riconoscimento della dignità della persona sono quindi funzionali alla attualizzazione di quella capacità di libertà che si esprime nella libera determinazione del proprio progetto di vita.

Nel quadro della moderna antropologia la dignità si correla all’autodeterminazione che la Corte Costituzionale ha qualificato come diritto fondamentale della persona nella sentenza n. 438/2008 (in tema di consenso informato).

Sulla natura di principio di rango costituzionale appare rilevante ricordare la sentenza della Corte Costituzionale n.293/2000 secondo cui “la dignità è principio costituzionale che informa di sé il diritto positivo vigente”.

Alla stregua delle considerazioni che precedono, esiste un “nesso tra dignità e libera costruzione della personalità” che impone un “dovere pubblico di costruire un contesto all’interno del quale le decisioni della persona possono essere effettivamente libere”, grazie alla “rimozione di ostacoli” non solo economici ma anche sociali (art. 3 cost). [41]                                                          

Senza ripercorrere analiticamente il quadro ricostruttivo della evoluzione del concetto di “diritto alla verità” nella elaborazione della Commissione Interamericana e dalla Corte Interamericana dei diritti umani, organi previsti dall’art. 33 della Convenzione Americana sui diritti umani, nota come Patto di San Josè [42], appare tuttavia opportuno richiamare sinteticamente alcuni passaggi significativi di tale processo evolutivo.

Il primo spunto di riflessione attiene al significativo contributo ermeneutico fornito dalla Commissione sotto almeno due profili:

  1. Il riconoscimento di una duplice dimensione, una individuale e una collettiva, del diritto alla verità;
  2. La costruzione di tale diritto come diritto autonomo, dotato di forza propria e giustiziabile.

Dopo una inziale resistenza ad accogliere l’interpretazione progressista sostenuta dalla Commissione – negando che la Convenzione prevedesse un diritto alla verità [43] – successivamente la Corte [44] ha fatto registrare un approdo ermeneutico che ha riconosciuto la configurabilità di tale diritto – riconducibile al più ampio diritto di accesso alla giustizia – individuandone il fondamento normativo nel combinato disposto degli artt. 8 e 25 della Convenzione, che prevedono, rispettivamente, il diritto ad un processo equo e la protezione giudiziaria, la quale ultima si sostanzia nel riconoscimento del “diritto ad un accesso semplice e rapido o comunque effettivo ad una corte o tribunale competente per ottenere protezione dagli atti che violano i suoi diritti fondamentali riconosciuti dalla costituzione o dalle leggi  dello Stato in questione o dalla presente convenzione  anche quando tali violazioni  siano state poste in essere da persone  nell’esercizio di funzioni ufficiali”.

La costruzione del diritto alla verità come diritto all’accesso alla giustizia ne ha orientato l’interpretazione nel senso di pretesa del cittadino nei confronti delle istituzioni competenti al massimo sforzo e scrupolo investigativo per la ricostruzione attendibile e veridica di gravissimi fatti e come diritto ad ottenere informazioni documentali e contributi probatori all’accertamento della verità in sede processuale.

Sotto l’impulso della elaborazione da parte della Commissione di una concezione dei diritti umani sempre più consapevole della necessità di contrastare la discriminazione e fornire sostegno a quelle popolazioni e comunità storicamente vittime di regimi autoritari, il diritto alla verità ha progressivamente assunto una dimensione collettiva ed una portata che trascende l’interesse individuale della vittima fino ad assurgere a strumento di tutela della dignità della persona, quale elemento fondante di un sistema di orientamento valoriale delle moderne democrazie e degli Stati costituzionali di diritto.

Anche la Corte di San Josè ha finito per recepire quella dimensione collettiva, come appare desumibile dal percorso argomentativo del paragrafo 119 della motivazione della sentenza Anzualdo Castro v.Perù [45]

In tale prospettiva anche alla società si riconosce il diritto di conoscere la verità in ordine a gravi violazioni di diritti fondamentali

E, sotto questo profilo, la riconosciuta dimensione collettiva del diritto alla verità ha finito per favorire un approdo ermeneutico che riconosce una possibile lesione della dignità di un intero Paese oltre che della singola vittima.

I ricorrenti avevano altresì dedotto un ampliamento del fondamento giuridico del diritto alla verità, riconducendolo non solo all’originario quadro normativo di riferimento, cioè gli artt. 8 e 25 della Convenzione, ma ora anche agli artt. 1, comma primo e 13. della convenzione, che prevedono, rispettivamente, il dovere degli Stati di “rispettare i diritti e le libertà riconosciuti” dalla convenzione ed “assicurare il libero e pieno esercizio di tali diritti e libertà” e il diritto alla libertà di pensiero e di espressione.[46]

Il collegamento tra il diritto alla verità ed il diritto di libera manifestazione del pensiero sottende una acuta e sottile operazione ermeneutica perché la disposizione in esame prevede che “tale diritto include la libertà di ricercare, ricevere trasmettere informazioni e idee di ogni tipo…..oralmente o per iscritto, attraverso  la stampa, in forma artistica o attraverso qualunque altro medium a propria scelta”, sicchè il diritto alla verità si correla, all’evidenza, al diritto di essere informato correttamente quale aspetto speculare del diritto di manifestazione del pensiero, sub specie di “ricevere e trasmettere informazioni”.

Sul punto però il recepimento di tale argomento appare meno univoco avendo la corte rilevato che “Quanto alla presunta violazione dell’articolo 13 della Convenzione i patrocinanti/ricorrenti si sono limitati a segnalare che il diritto alla verità è collegato ad un livello più ampio di diritti e hanno citato vari strumenti internazionali, senza però correlarli ai fatti del presente caso. Conseguentemente gli elementi forniti non sono sufficienti a stabilire la presunta violazione di tale disposizione”.[47]

Più che un rigetto nel merito la decisione della Corte sul punto rileva la mancata osservanza di un onere di allegazione.

Come è stato opportunamente rilevato [48] il ben diverso contesto storico, sociale e politico in cui è chiamata ad operare la Corte Edu, caratterizzato dalla assenza di svolte autoritarie o di regimi totalitari, ha determinato la mancanza di spazi di operatività per gravi violazioni di diritti umani assimilabili a quelli registratisi nei paesi dell’America latina e conseguentemente per interventi della Corte di Strasburgo che in qualche modo potessero chiamare in causa il diritto alla verità, difettando i presupposti di fatto per dedurne la violazione ed invocarne la tutela.

Tuttavia anche la corte Edu, nel 2012, ha pronunciato una importante sentenza in materia di extraordinary renditions nel caso El-Masri c. Macedonia, concernente un cittadino tedesco di origini libanesi, arrestato dalla polizia macedone perché sospettato di essere un terrorista e consegnato alla CIA che lo aveva segretamente trasferito in Afganistan al fine di sottoporlo ad interrogatorio.

Dopo aver subito trattamenti gravemente lesivi della propria libertà e dignità umana ed essere stato abbandonato in una strada in Albania, a seguito dell’accertamento della sua estraneità a fenomeni di terrorismo, i tentativi di avviare un procedimento penale in Macedonia si erano scontrati con il muro della complicità delle autorità locali.

La Corte EDU ha condannato  la Macedonia per violazione degli Articoli 3, 5, 8 e 13 della CEDU, per i trattamenti subiti da El-Masri durante la detenzione da parte delle autorità macedoni, riconosciuti come degradanti e disumani oltre che integranti  gli estremi della tortura, riconoscendo un importante principio secondo cui le vittime di gravi abusi e, più in generale, la società hanno un diritto alla verità, ovvero a venire informati delle gravi violazioni compiute dai governi nella lotta al terrorismo.

Vanno infine ricordati gli importati contributi forniti alla elaborazione di un autonomo diritto alla verità da alcune Corti Costituzionali sud-americane che ne hanno affermato la dimensione non solo individuale ma anche collettiva, correlandone il carattere di diritto fondamentale alla dignità umana.

In particolare vanno segnalate la sentenza T-578/93 della Corte Costituzionale colombiana e quella del Tribunale Costituzionale peruviano n.2488-2002-HC/TC.

Quest’ultima sentenza è particolarmente significativa perché in un caso di “desapariciòn forzada” di un cittadino peruviano, Genaro Villegas Namuche, su ricorso della sorella, ha affermato alcuni principi fondamentali in ordine al diritto alla verità fra i quali:

  • La riferibilità di tale diritto alla Nazione (§4 punto 8);
  • La dimensione collettiva e individuale di tale diritto (p. 9);
  • Sebbene tale diritto non abbia un riconoscimento espresso nel testo costituzionale costituisce un diritto tutelato che deriva dalla obbligazione statale di proteggere i diritti fondamentali e dalla tutela giurisdizionale, atteggiandosi come diritto costituzionale “implicito” (p. 13);
  • Sebbene alla base di questo diritto vi siano altri diritti fondamentali, tra i quali la libertà, la vita e la sicurezza personale, il diritto alla verità “ha una sua autonoma configurazione” che lo distingue da altri diritti fondamentali( p.14);
  • Senza pregiudizio del contenuto costituzionalmente protetto del diritto alla verità esso evidenzia un livello costituzionale (“rango constitucional”) perché è espressione concreta dei principi costituzionali della dignità umana, dello stato democratico e sociale di diritto e della forma repubblicana del governo (p.15);
  • È un diritto che discende direttamente dal principio di “dignità umana” perché il danno provocato alle vittime non solo si traduce in una lesione di beni rilevanti come la vita, la libertà e la integrità personale, ma anche nella ignoranza di ciò che veramente è accaduto alle vittime degli atti criminali. La non conoscenza del luogo in cui giacciono i resti di un caro congiunto o di ciò che gli è accaduto, è forse una delle forme più perversamente sottili, ma non meno violente, di ferire la coscienza e la dignità degli esseri umani (p.16).

Nelle sentenze della corte EDU su vicende italiane concernenti gravi fatti di violenza, come quelli perpetrati in occasione del G8 nella scuola Diaz e nella caserma Bolzaneto, ovvero in tema di “sparizioni  straordinarie” o forzate come nel caso del sequestro di Abu Omar, si registra un allineamento con le posizioni e i principi sanciti dalla corte di San Josè, anche se bisogna riconoscere che manca un esplicito riferimento al “diritto alla verità”, enfatizzandosi piuttosto un forte richiamo alla esigenza di indagini effettive” funzionali alla identificazione  e punizione dei colpevoli nonché al risarcimento dei danni.

In particolare nella sentenza relativa al caso Nasr e Ghali c.Italia, concernente il sequestro di Abu Omar, la corte Edu ha riconosciuto la violazione dell’art. 3 della convenzione (Proibizione della tortura: nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti) in relazione agli atti di violenza fisica e sofferenze morali subiti in occasione della operazione di “ consegna Straordinaria”, sia in occasione del “sequestro in mezzo alla strada” che “implicava l’uso combinato di tecniche che non hanno mancato di infondere nell’interessato un sentimento di stress emozionale e psicologico”, sia in occasione della “detenzione che ne è seguita, compreso il trasferimento a bordo di un aereo verso una destinazione sconosciuta”, sicchè  “questo tipo di operazioni ha sicuramente posto il ricorrente in una situazione di totale vulnerabilità. Egli ha vissuto senza dubbio in uno stato di angoscia permanente a causa dell’incertezza relativa al suo futuro” (cfr. par. 284).

Con specifico riferimento alla effettività delle indagini che consentano la punizione del colpevole, la Corte ha ritenuto che vi sia stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione sotto il profilo procedurale, sul rilievo che “malgrado il lavoro degli inquirenti e dei magistrati italiani, che ha permesso di identificare i responsabili e di pronunciare delle condanne nei loro confronti, le condanne in questione sono rimaste prive di effetto, a causa dell’atteggiamento dell’esecutivo, che ha esercitato il suo potere di opporre il segreto di Stato, e del Presidente della Repubblica. Nel caso di specie, il principio legittimo del «segreto di Stato», evidentemente, è stato applicato allo scopo di impedire che i responsabili dovessero rispondere delle loro azioni. Di conseguenza l’inchiesta, seppur effettiva e approfondita, e il processo, che ha portato all’identificazione dei colpevoli e alla condanna di alcuni di loro, non hanno avuto l’esito naturale che, nella fattispecie, era «la punizione dei responsabili» (paragrafo 262). Alla fine vi è stata dunque impunità (cfr. par. 272)

La sentenza ha riconosciuto inoltre la violazione dell’art. 5 della convenzione in relazione alla privazione della libertà e dell’art. 8 che tutela il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare.

Ma anche nei confronti della moglie è stato riconosciuto il trattamento inumano e degradante a causa della scomparsa del marito e della mancanza di conoscenza circa la sua sorte protrattasi per un lungo tempo.

Questo punto è significativo perché affronta specificamente il diritto alla conoscenza in relazione alle “tattiche ostruzionistiche del Sismi che agiva in cooperazione con i colleghi della CIA la ricorrente non ha potuto ottenere per un lungo periodo alcuna spiegazione su cosa fosse accaduto al marito”. (cfr. par. 316)

“Per la Corte l’incertezza, i dubbi e l’apprensione provati dalla ricorrente per un periodo prolungato e continuo le hanno causato una sofferenza mentale grave e dell’angoscia. Considerata la sua conclusione secondo la quale non solo la scomparsa del ricorrente ma anche il fatto che la ricorrente è stata privata di notizie riguardanti la sorte del marito per un periodo prolungato sono imputabili alle autorità nazionali, la Corte ritiene che la ricorrente abbia subito un trattamento vietato dall’articolo 3. (cfr. par. 317)

Il profilo relativo alla mancanza di notizie del marito ed allo stato di angoscia che ne è derivato è stato valorizzato dalla Corte anche per riconoscere la violazione dell’art. 8 CEDU sub specie della ingerenza nella vita privata.

La corte ha inoltre riconosciuto la violazione dell’art. 13  CEDU (Diritto ad un ricorso effettivo) dedotta dai ricorrenti rilevando che “ l’inchiesta condotta dalle autorità nazionali – la polizia, la procura e le autorità giudiziarie – che verteva sulle contestazioni, presentate dai ricorrenti, relative a restrizioni della loro libertà personale e lesioni della loro integrità fisica e psichica e della loro vita privata e famigliare è stata privata di qualsiasi effettività a causa dell’apposizione del segreto di Stato da parte dell’esecutivo.. Di conseguenza, i ricorrenti avrebbero dovuto essere in grado, ai fini dell’articolo 13, di esercitare dei ricorsi concreti ed effettivi tali da permettere di individuare e punire i responsabili, di accertare la verità e di accordare una riparazione. (par.334)

Alla stregua delle considerazioni che precedono, pur non evocando espressamente il “diritto alla verità” la Corte EDU nella sentenza de qua, nel sottolineare l’esigenza della “effettività” delle indagini, sub specie della idoneità ad assicurare la punizione del colpevole scongiurandone l’impunità, ha operato un chiaro recupero del valore espresso dalla endiadi “verità e giustizia” la cui tutela si persegue anche attraverso il rispetto del diritto dei familiari a conoscere la sorte del loro congiunto e ad essere informati su quanto accaduto, la cui lesione è causa di patimenti morali e di  angoscia riconducibili alla violazione dell’art. 3 in quanto “trattamento inumano”, e quindi fonte di danno morale risarcibile, che si aggiunge alla violazione della integrità fisica e psicologica del congiunto vittima della violenza patita per effetto della sparizione forzata.

Sulla costituzionalizzazione del diritto alla verità

Ritornando alla riflessione da cui ha preso le mosse questo scritto, la domanda cioè sulla opportunità o necessità di un riconoscimento formale del diritto alla verità ed in particolare della sua esplicita costituzionalizzazione, va preliminarmente rilevato che manca nella carta costituzionale un riferimento a tale diritto, il cui riconoscimento tuttavia, nel nostro ordinamento giuridico, costituisce il risultato di una elaborazione giurisprudenziale, sopra illustrata, che ha ritenuto di poter desumere quel diritto da principi costituzionali, primo fra tutti la dignità umana, la cui natura di diritto fondamentale è ormai indubbia.

Si tratta di una delle tecniche di applicazione “diretta” delle norme costituzionali da parte della giurisdizione comune che consiste nel ricercare direttamente in una norma costituzionale la disciplina di un rapporto al fine di colmare una lacuna attraverso la c.d. “interpretazione costituzionalmente orientata”.

Attraverso i percorsi argomentativi illustrati nelle pagine precedenti il diritto alla verità – con specifico riferimento alla conoscenza della sorte dei propri congiunti o delle cause e/o modalità della loro morte – è stato riconosciuto come pretesa giuridicamente tutelata ed azionabile.

Ed anche la risarcibilità del danno derivante dalla violazione di quel diritto è stata affermata attraverso una reinterpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ. con le sentenze della S.C. Sez. III civ in data 31/5/2003, n 8827 e 8828, secondo cui:

  1. Nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione – che, all’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona, non esaurendosi esso nel danno morale soggettivo;
  2. Il danno non patrimoniale conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della Legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.

Il principio è stato ribadito dalla Corte Costituzionale [49] secondo cui “può dirsi ormai superata la tradizionale affermazione secondo la quale il danno non patrimoniale riguardato dall’art. 2059 cod. civ. si identificherebbe con il cosiddetto danno morale soggettivo.

Richiamando le due pronunce sopra citate, la Corte ne ha condiviso le argomentazioni a sostegno della interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ. “tesa a ricomprendere nell’astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.); sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”.

Ha quindi rigettato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c in riferimento all’art. 3 cost e ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità formulata in riferimento agli artt. 2 e 3 diretta a censurare la limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale ai soli casi stabiliti dalla legge.

Conclusivamente, quando vengono in considerazione valori personali di rilievo costituzionale non opera il limite della riserva di legge correlata all’art. 185 c.p. cui l’art. 2059 subordina la risarcibilità del danno non patrimoniale.

Alla luce di quanto sopra esposto appare ormai acquisito alla coscienza collettiva ed al patrimonio giuridico consolidatosi nel diritto vivente che la “dignità umana” risulta variamente correlata ad ambiti diversi, sia formalmente, in quanto direttamente formulata nel testo costituzionale, come nel caso dei rapporti di lavoro (art.36 cost) in relazione alla retribuzione ovvero della utilità sociale della iniziativa economica (art. 41 cost), sia implicitamente, in quanto in vario modo agganciata al livello costituzionale in via interpretativa, come nel caso della uguaglianza morale e giuridica fra i coniugi ( art. 29 cost.) o del trattamento penitenziario che non può essere contrario al senso di umanità (art. 27), disposizioni, queste, che non possono non evocare la dignità umana quale diritto fondamentale implicito

La dignità umana, quindi, opera come una sorta di “clausola in bianco” (come nel caso tipico dell’art. 2 cost) e sono tali quelle “che possono essere interpretate nel senso di autorizzare l’individuazione di nuovi diritti, non espressamente ricompresi nel catalogo costituzionale ma assunti come congruenti rispetto ai valori fondamentali dell’ordinamento”.[50]

Ma mentre, dunque, il riconoscimento e la tutela della dignità umana trovano la loro concretizzazione in ambiti specifici espressamente o implicitamente richiamati da disposizioni costituzionali, la correlazione con il diritto alla verità, non previsto da alcuna specifica disposizione, è il risultato di una elaborazione culturale e giuridica che rimane affidata ad una interpretazione costituzionalmente orientata che valorizza, in particolare, il concetto di dignità enunciato nell’unica disposizione, l’art. 3 cost, in cui questo valore fondante, assunto come momento essenziale della vita sociale, è espresso in termini tali (“pari dignità sociale”) da evocare un valore ulteriore, l’uguaglianza, intesa come pari dignità sociale e quindi come riconoscimento reciproco  dei cittadini come liberi ed uguali.

Nelle disposizioni contenute negli artt. 36 e 41 cost., sopra richiamate, il concetto di dignità sembra essere stato assunto in una accezione particolare, vale a dire come valore la cui realizzazione e tutela assumono una funzione di promozione sociale e solidarietà, con un chiaro contenuto propositivo e solidaristico in favore delle classi subalterne e degli emarginati, la cui dignità, appunto, viene messa in pericolo o lesa dalle diseguaglianze economico-sociali o da un sistema economico ispirato alla pura logica del profitto e non svolto anche in una prospettiva di utilità sociale  e rispetto della dignità umana.

Diversa appare la prospettiva in cui si colloca il riferimento alla dignità contenuto nell’art.3 Cost., in cui sembra potersi individuare una nozione di dignità non limitata soltanto all’essere umano in quanto tale – secondo una visione eminentemente soggettiva e personalista – ma anche con riguardo all’essere umano nella sua vita di relazione e più in generale all’essere umano come soggetto della società.

Questa dimensione sociale della dignità è chiaramente espressa nel primo comma dell’art. 3 cost. in cui si parla di “pari dignità sociale” in collegamento al successivo principio di uguaglianza formale espresso subito dopo con il riferimento alla uguaglianza di fronte alla legge.

Il concetto di dignità deve essere letto, dunque, non soltanto in chiave di uguaglianza formale (evocata dall’aggettivo “pari”) ma anche in chiave di uguaglianza sostanziale, nel senso che l’affermazione della dignità umana nel contesto sociale implica che i pubblici poteri devono adoperarsi per garantire il pieno rispetto ed il pieno sviluppo della persona, proprio in quanto portatrice di dignità.

È evidente che in questa accezione il concetto di dignità si collega direttamente ai principi su cui si fonda il sistema di Welfare State.

Una chiara conferma di tale assunto può desumersi dall’esame delle altre due  disposizioni in cui viene evocato il concetto di dignità ed entrambe riguardano rapporti economici la cui disciplina è influenzata dal passaggio da un modello di Stato liberale a quello di Stato sociale.

La prima disposizione è quella già richiamata dell’art. 41 cost. il cui secondo comma stabilisce che “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.”

Non a caso la prima garanzia approntata a tutela del lavoratore rispetto a chi ha posto in essere una iniziativa economica è quella costituita dal diritto “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sè ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa” (art. 36, primo comma, cost.)

Accanto agli artt.3, 36, e 41 che fanno un riferimento esplicito alla dignità, si trovano altri riferimenti impliciti: oltre che nei già ricordati artt. 29 e 27, anche nell’art.13, comma 3, in cui è previsto che è punita ogni violenza fisica o morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà, nonché nell’art.32, sia nella parte in cui si garantiscono cure gratuite agli indigenti, sia in tema di trattamenti sanitari obbligatori, laddove è previsto che la legge non può mai violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Più in generale, poi, un riferimento implicito alla dignità della persona umana si può riscontrare nell’art. 2, anello di congiunzione tra il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo e l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale e nell’art.3, in particolare nel principio di eguaglianza sostanziale, laddove si attribuisce alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.

In ultima analisi la dignità umana costituisce il nucleo centrale e irriducibile dei diritti fondamentali che legittima un intervento dello Stato quando risulti necessario per assicurare effettivamente la tutela di soggetti i quali, versando in condizioni di estremo bisogno, vantino un diritto fondamentale che, in quanto strettamente inerente alla tutela della dignità della persona, in presenza di particolari situazioni, deve potere essere garantito (per es. in materia di assistenza sanitaria).

Una interessante e condivisibile lettura comparatistica della nozione di dignità umana nella costituzione italiana rispetto a quella tedesca è stata elaborata da Paolo Becchi [51] il quale ha posto l’accento sul fatto che mentre nella carta fondamentale tedesca la dignità umana assume la portata di un valore fondante e supremo, peraltro desumibile, come già sopra evidenziato, dalla collocazione topografica, in quella italiana, che all’art.1 proclama che la repubblica è “fondata” sul lavoro, centrale non è tanto la dignità dell’uomo quanto piuttosto quella del lavoratore.

Muovendo dall’analisi dei tre articoli in cui più evidente ed esplicito appare il riferimento alla dignità – vale a dire le disposizioni, sopra citate, di cui agli artt. 3 comma1, 36 comma 1 e 41 comma 2 – lo studioso ha rilevato che sebbene i soggetti cui si rivolgono le tre disposizioni siano diversi (i cittadini, i lavoratori e gli imprenditori) l’accento è posto sempre in realtà “sulla dimensione sociale della dignità”.

Ed invero, tanto il richiamo alla “pari dignità” dei cittadini, che evoca il principio di uguaglianza formale ed il rifiuto di privilegi, quanto la chiara indicazione dell’obiettivo da raggiungere quale “compito” della Repubblica, vale a dire l’uguaglianza sostanziale, rimuovendo tutti gli ostacoli al pieno sviluppo della loro personalità, evidenziano che “la pari dignità viene riconosciuta ai cittadini in forza della loro appartenenza ad una comunità politica” [52].

Secondo il Becchi, “anche ammesso, inoltre, che sia possibile estendere ulteriormente sulla base dell’art. 2 che riconosce “i diritti inviolabili dell’uomo”, il principio della pari dignità sociale dei cittadini a tutti gli uomini, resta il dato di fatto che nella Costituzione italiana il soggetto con cui la dignità viene posta esplicitamente in relazione non è mai l’uomo in quanto tale, astrattamente considerato, bensì il cittadino, il lavoratore, l’imprenditore”.[53]

Lo stretto collegamento fra i tre articoli citati sarebbe reso evidente dal loro esplicito (art. 36, comma 1 e 41, comma 2) o implicito (art.3 comma 1) riferimento alla nozione di lavoro ed i primi due articoli in particolare vanno letti in relazione agli artt. 2099 (retribuzione) e 2087 (tutela delle condizioni di lavoro) c.c.

Quest’ultima disposizione del codice civile in particolare specifica che le condizioni di lavoro devono essere tali da “tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

“Il combinato disposto di questi articoli lascia chiaramente emergere il rilievo decisivo che ha il lavoro nel riconoscimento della pari dignità sociale”  e che “sia il lavoro a consentire ai cittadini la piena realizzazione della loro personalità e con ciò della loro dignità”.[54]    

Questa particolare lettura costituzionale della nozione di dignità non esclude tuttavia che nel nostro ordinamento giuridico non vi sia spazio per un altro uso della “dignità”; pur tuttavia deve riconoscersi che anche laddove il richiamo a tale valore sia evidente il termine non sia stato usato esplicitamente.

Ciò appare evidente nelle disposizioni costituzionali, sopra richiamate, in cui il pur chiaro riferimento all’uomo piuttosto che al cittadino-lavoratore non ne evoca esplicitamente la sua dignità, quanto piuttosto: la inviolabilità della  libertà personale (art.13), sanzionando “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte restrizioni di libertà; il senso di umanità cui devono essere ispirati le pene ed il trattamento sanzionatorio in funzione della risocializzazione del condannato ( art. 27, comma 3), in cui appare ancora evidente la “dimensione sociale” su cui si insiste anche nel settore dell’umanitarismo penale funzionale al recupero sociale. E tutto ciò è un segno evidente che “l’accento batteva comunque sulla dignità sociale e non sulla dignità umana”. [55]

E, per concludere, perfino nell’art. 32 cost., disposizione sopra richiamata, manca un esplicito riferimento alla dignità umana, pur inizialmente presente nell’art. 26, comma 2 nel progetto elaborato dalla Commissione dei 75 per l’Assemblea Costituente, secondo cui “sono vietate le pratiche sanitarie lesive della dignità umana”, la cui formulazione non venne alla fine accolta.

Concludendo l’analisi del quadro normativo costituzionale di riferimento in comparazione con la legge fondamentale tedesca, Becchi [56] rileva che mentre in quest’ultima la dignità è una dote naturale dell’uomo in quanto tale ed assume quindi una portata universalistica, nella nostra carta costituzionale ha invece un “significato prevalentemente particolaristico, nel senso che scaturisce dal riconoscimento per le prestazioni che il cittadino effettua nella società”.

Nel primo caso la dignità è un valore assoluto che riguarda astrattamente l’uomo come fine in sé, nel secondo è un valore relativo che riguarda la sua concreta collocazione nel tessuto sociale.

La dignità, quindi, per il nostro sistema costituzionale, non assumerebbe il valore tipico di “qualcosa di dato dalla natura umana” quanto piuttosto un valore da costruire e promuovere, rimuovendo tutti gli ostacoli che impediscono la piena realizzazione del cittadino, acquisendo in tal modo una tipica portata solidaristica in quanto non solo costituisce un diritto ma implica anche l’adempimento di un dovere di solidarietà.

Dalle considerazioni che precedono l’insigne studioso trae la conclusione che sebbene anche la nostra costituzione ponga l’accento sulla solidarietà, tuttavia i diritti inviolabili dell’uomo vengono riconosciuti non solo in quanto parte della “formazione sociale” ma anche “come singolo” (cfr. art. 2 cost.).

Ciononostante, secondo Becchi, il debito verso il giusnaturalismo moderno è ben più evidente nella costituzione tedesca, la quale nella sua ispirazione di fondo può essere assunta a paradigma del modello di dignità come “dote” mentre la costituzione italiana come modello centrato sulle “prestazioni”.[57]  

Questa dimensione relazionale della dignità espressa dall’art. 3 cost. con la nozione di “pari dignità sociale” è stata sottolineata da Stefano Rodotà il quale ha rilevato che “La dignità, quindi, non è un attributo che va riconosciuto a ciascuno di noi separatamente in quanto uomo, in quanto persona, ma una dimensione che deve caratterizzare anche le relazioni sociali, nel senso che la dignità deve essere riconosciuta dagli altri…E’ una regola di comportamento sociale, è il fondamento dei legami che ci stringono l’uno all’altro. Bisogna riconoscere l’altro nella sua dignità”[58]

Come è noto la costituzione incorpora e include nella sua struttura alcuni contenuti che positivizzano principi morali.

Le disposizioni che codificano diritti fondamentali sono formulate in termini generici, elastici e indeterminati, connotati in senso valutativo ed assiologico in quanto rinviano al linguaggio comune ed in parte a valori etico-politici.[59]

È inevitabile che una costituzione contenga un catalogo di diritti “formulato adoperando termini indeterminati e connotati valutativamente.”[60]

Si tratta di una formulazione “per principi” i quali sono “norme generiche ed indeterminate bisognose di successive concretizzazioni”.[61] 

Orbene, bisogna riconoscere che il percorso argomentativo che consente l’approdo ermeneutico più convincente è certamente quello che correla la violazione del diritto alla verità – nelle varie forme in cui si è di volta in volta concretizzata nelle vicende processuali esaminate – con la lesione della dignità umana, talvolta integrato dal riferimento all’art. 21 cost. e cioè al diritto di libera manifestazione del pensiero ed al correlativo diritto ad una corretta informazione.

Si tratta tuttavia, a mio sommesso avviso, di un percorso accidentato che rivela margini di opinabilità – con particolare riferimento alla correlazione con l’art. 21 cost. – che potrebbero indebolirne la solidità argomentativa, ciò che consiglierebbe un riconoscimento formale ed esplicito di tale diritto.

Ed invero, solo per accennare ad un profilo di pertinenza argomentativa, mentre la dignità menzionata nell’art. 3 cost. nella sua proiezione sociale sembra fondare un “diritto all’uguaglianza” sul piano dei diritti sociali e della giustizia distributiva [62] nonché il diritto ad un reciproco riconoscimento dell’Altro come soggetto degno di rispetto [63], la dignità lesa dalla violazione del diritto alla verità chiama in causa personalissimi profili esistenziali di sofferenza emotiva e affettiva della vittima, il lutto parentale, il dolore per la perdita di un congiunto, la profonda sofferenza di convivere con l’incertezza sulle cause che hanno determinato la morte dei loro congiunti e la consapevolezza della impunità dei soggetti ai quali la morte è ascrivibile, tutti parametri, peraltro, presi in considerazione dal tribunale di Palermo nella sentenza relativa alla strage di Ustica per la quantificazione del danno.

In altri termini, pur condividendo i pregevoli percorsi argomentativi che sorreggono gli orientamenti giurisprudenziali sopra citati, sarebbe forse auspicabile che la rilevanza umana e sociale del diritto alla verità ricevesse un solenne ed esplicito riconoscimento non solo attraverso la valorizzazione dei molteplici profili assiologici ravvisabili nella nozione di “dignità umana” come “ clausola in bianco” da interpretare per la individuazione di un nuovo diritto  (e cioè, il diritto alla verità), ma anche attraverso un più esplicito inserimento nel catalogo costituzionale ed una più pertinente correlazione con altri valori costituzionali (artt, 111 e 24 cost.)

Ed invero, anziché una integrazione del catalogo dei diritti fondamentali per via interpretativa, sarebbe opportuno, non ravvisandosi peraltro argomenti di segno contrario, affidare ad un esplicito riconoscimento formale nella carta costituzionale una più efficace tutela del diritto in questione, la cui specificità e operatività consiglierebbero un ancoraggio più solido non solo al valore della dignità ma anche al “giusto processo” e al più ampio “diritto di difesa”- sub specie del diritto di agire e difendersi provando –  per sottolineare la idoneità a rafforzare, anche simbolicamente, la funzione epistemologica che va riconosciuta al processo penale nella ricerca della verità storica.

Tanto più la proposta di una costituzionalizzazione formale di quel diritto appare giustificata ove si consideri che sebbene il nostro Paese non abbia conosciuto, dopo la restaurazione della democrazia con l’entrata in vigore della carta costituzionale, contesti socio-politici e istituzionali assimilabili a quelli di diversi regimi totalitari del Sud-America  che hanno fatto registrare gravissime violazioni di diritti umani – peraltro non episodiche ma sistematiche in pregiudizio di decine di migliaia di cittadini (oppositori politici, difensori di diritti umani, minoranze etniche, campesinos e cittadini inermi) –  tuttavia anche la nostra storia, più o meno recente, è costellata da gravissimi attacchi alla democrazia ed alla sicurezza individuale e collettiva attraverso tentativi di svolte autoritarie golpiste, stragi, attentati consumati e/o falliti (per es. strage di Bologna, stragi del ‘92 e del ‘93, fallito attentato allo stadio olimpico in danno dei carabinieri, omicidi politico-mafiosi) molti dei quali ancora impuniti a causa di depistaggi e collusioni di corpi separati dello Stato e funzionari infedeli ancora avvolti nel mistero.

La solenne proclamazione del diritto alla verità, nella sua dimensione individuale e collettiva, non avrebbe solo il valore simbolico di un forte impegno delle istituzioni, nelle varie articolazioni, ad assicurare e garantire ai cittadini “verità e giustizia”, ma realizzerebbe la concretizzazione, rafforzandoli, di quei doveri di fedeltà e imparzialità che costituiscono il reale contenuto della “disciplina e dell’onore” che devono connotare l’adempimento delle funzioni pubbliche, peraltro spesso svolte previo giuramento (art.54 cost.)

È appena il caso di rilevare che i familiari del compianto Paolo Borsellino continuano a reclamare con coraggio e fermezza, dopo ben 33 anni, “verità e giustizia”, richiesta alla quale i processi celebrati solo in parte hanno dato delle risposte, neppure dopo la revisione di ingiuste sentenze di condanna alle quali non sono estranee condotte di depistaggio istituzionale, mentre ancora ci si interroga sulla sorte della “agenda rossa” la cui sparizione non può che essere imputabile alla condotta di soggetti infedeli appartenenti ad apparati dello Stato.

Proprio con specifico riferimento a tale ultima tenace richiesta di verità ed al coraggio di dire qualcosa di importante e pericoloso contro il potere costituito in nome della verità, non si può, conclusivamente, non rinviare alle considerazioni sopra svolte sulla “parresia giudiziaria” e sul rapporto tra il vero e l’esercizio del potere, ove si consideri che ancora oggi non sono stati chiariti né il disegno strategico destabilizzante sotteso alle stragi del ‘92 e del ’93 né i termini di quello che appare sempre più come un probabile coinvolgimento di istituzioni deviate, dapprima nella fase deliberativa ed esecutiva e poi nel più grave depistaggio della nostra storia recente, concernente la strage di via D’Amelio, come accertato dal tribunale di Caltanissetta con la sentenza in data 12/7/2022, ancorchè non avente per oggetto la specifica fattispecie di depistaggio prevista dall’art. 375 c.p. perché introdotta con L.11/7/2016  n. 133, quindi successivamente ai fatti del 19/7/1992.

Forse il riconoscimento esplicito di un diritto alla verità e della sua tutela, attraverso precise formulazioni normative ed accorte scelte di topografia legislativa che ne consentano una più univoca correlazione alla giurisdizione (art. 111 cost) e ad una dimensione processuale (art. 24 cost.) – come sede di verifica e disvelamento di fatti lesivi di diritti fondamentali attraverso il metodo dialettico del contraddittorio e della leale collaborazione probatoria delle istituzioni – restituirebbe ai suoi titolari una dignità che trascende la sua dimensione sociale e relazionale per coglierne, in prima battuta, quella più interiore, in cui solo la luce disvelante della verità può conferire al dolore la serenità e la capacità di elaborazione del lutto, ed eventualmente anche una dimensione collettiva in cui può trovare spazio la condivisione del dolore, la solidarietà, la compassione e la comune tenace difesa delle libertà democratiche  fondamentali.

E questa dimensione collettiva del diritto alla verità, fondata su valori condivisi, non può che rafforzare la democrazia e favorire la rifondazione dello Stato sulla base di una nuova etica pubblica: l’etica della verità.

* Già procuratore della Repubblica presso il tribunale di Palmi

Fonte: Questione Giustizia

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Note

[1] Giovanni Roberto Conti, Il diritto alla verità nei casi di gross violation nella giurisprudenza Cedu e della Corte interamericana dei diritti umani, Gli speciali di Questione Giustizia, aprile 2019, parte quarta.

Dello stesso autore:

-Verità e Costituzione, Roberto Conti intervista Antonio Ruggeri, Accademia n.2/2023.

– Roberto Conti, Appunti su alcuni aspetti della verità nel diritto, Rivista di Diritti Comparati, n.3/2022

Fra i saggi più interessanti per un quadro ricostruttivo degli orientamenti giurisprudenziali internazionali meritano di essere citati:

-Umberto Celli, Il Diritto alla Verità nell’ottica del Diritto Internazionale: il caso brasiliano, in annali della Facoltà Giuridica dell’università di Camerino – n.6/2027 –ISSN online 2281-3063.

-Davide Bacis, Il diritto alla verità nel dialogo tra Corti. Roma accoglie le suggestioni di San Josè de Costarica, in note e commenti –DPCE on line 2018/2, ISSN 2037-6677  

[2] Come si legge nel preambolo, con l’auspicio che possa contribuire a prevenire, sanzionare e sopprimere la sparizione forzata di persone nell’emisfero e costituisca un contributo decisivo alla protezione dei diritti umani e dello stato di diritto, in data 9/6/1994 è stata adottata dall’Assemblea generale dell’organizzazione degli stati americani (OAS) a Belèm do Parà in Brasile la Convenzione inter-americana sulla sparizione forzata di persone.

[3] Per un quadro completo del drammatico fenomeno de la “desapariciòn” in Messico, de “Las mujeres  rastreadoras” che scavano con le loro mani fin quando non trovano i resti dei loro congiunti e la costituzione de “las brigadas nacionales de busqueda”, in un contesto istituzionale di indifferenza, inerzia, inefficienza e collusioni cfr. Marcela Turati e Claudio La Camera, Una strage silenziosaIl Messico insanguinato e la ricerca dei sepolti senza nome. Introduzione di Nando Dalla chiesa. I Solferini 2024

[4] Bruno Centrone, L’etimologia di ἀλήθεια e la concezione platonica della verità

Per la versione più aggiornata, cfr ALHθEIA LOGICA, ALHθEIA ONTOLOGICA IN PLATONE, Mèthesis XXVII (2014) pp. 7-23

[5] L’origine del termine “veritas” proviene dalla zona balcanica-slava ed in origine significa tutt’altro che verità bensì “fede” tanto è vero che l’anello nuziale si indica con il termine “vera” e la parola russa “vara” significa fede. In questo senso si considera vero ciò che si assume tale per fede. Secondo una sottile visione storica e critico-filologica del significato di verità si distingue una verità di fatto e una verità di ragione; la prima si ricollega al significato di fede nel senso che è vero ciò in cui ripongo talmente fede da assumerlo come vero senza alcuna riflessione critica, mentre la verità di ragione è la cosa che considero tale attraverso un ragionamento e che pertanto diventa vera nel giudizio, nel ragionamento, nel logos. Cfr. Francesco Adorno, intervista dell’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche. www.raicultura.it Francesco Adorno aletheia e veritas

[6] Hans Georg Gadamer,, ha elaborato la propria nozione dinon-dissimulatezza, cfr. Che cos’è la verità -I compiti di una ermeneutica filosofica, Rubettino 2012, pag.20 e nota

[7] B.Centrone,op.cit. pag. 91

[8] B.Centrone,op.cit.pag.92

[9] B.Centrone,op.cit pagg. 94-95

[10] Su quello che Centrone indica come “slittamento semantico” di λήθη verso  la nozione di oblio,  dimenticanza cfr. op.cit.pag 97

[11] B.Centrone,cfr, op. cit. pag 98 con specifici riferimenti ad alcune occorrenze terminologiche nel Sofista.

[12] Per una rassegna dei significati filosofici del termine ἀλήθεια e della differenza tra verità logica e verità ontologica, cfr. Vocabolario greco della filosofia, a cura di Ivan Gobry, Bruno Mondadori, 2004, pagg.12-15

[13] cfr. Centrone, op. cit. pag.95, che cita il caso di Fenice nell’Iliade, dove compare proprio il verbo ‘ricordare’(gr. Memneoto) in relazione al compito di fornire un resoconto della situazione preciso, dettagliato e non omissivo.

[14] Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Picola biblioteca Donzelli,2019, pagg.9- 12

[15] Per una lucida analisi dei rapporti tra prova, regole processuali e verità, cfr. Jordi Ferrer Beltràn, “Prova e verità nel diritto”, pagg. 63 e segg, 2004 Il Mulino 

[16]  J.Ferrer, op. cit.pag.71

[17] F.Carnelutti, La prova civile, II edizione Roma Edizioni dell’Ateneo, 1947, pagg.29-30

[18] Paolo Tonini e Carlotta Conti, Il diritto delle prove penali (pref. di Giovanni Canzio), pagg.1-7, 3^ ed. 2025 Levebvre Giuffrè,

[19] Per una analisi della dimensione epistemica del processo, cfr. Michele Taruffo, “La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti”, pagg.134 e segg. Editori Laterza,2009

[20] Paolo Becchi, Il principio di dignità umana, ed. Morcelliana-Pellicano Rosso, 2013, pagg. 7 e segg.

[21] Questo brano, tratto dalla fondamentale opera di T.Hobbes,  Leviatano, è  riportato in  P.Becchi, op.cit. pagg.13-14    

[22] P.Becchi,op. cit. pagg 14-15 e nota

[23] Per un approfondimento del concetto di riconoscimento che esprime una esigenza di reciprocità di ciascun individuo ed un puntuale richiamo alla metafora hegeliana del rapporto servo-padrone (sviluppata dal grande filosofo tedesco nella Fenomenologia dello spirito” ) cfr. Bruno Celano, I diritti nello stato costituzionale, pagg.181-182 e nota 20, Il Mulino,2013

[24] “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine, e mai semplicemente come mezzo.  […] Nel regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità. Il posto di ciò che ha un prezzo può essere preso da qualcos’altro di equivalente; al contrario ciò che è superiore ad ogni prezzo e non ammette nulla di equivalente, ha una dignità […]  I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi. BA 67 -77, a cura di Piero Chiodi, Filosofia Classici antichi e moderni pagg. 260 e 265

[25] P.Becchi,op. cit. pag. 16

[26] Jeanne Hersch: I diritti umani da un punto di vista filosofico, a cura di Francesco De Vecchi, prefazione di Roberta De Monticelli pagg 37-38, Bruno Mondadori 2008, sulla cui elaborazione teorica si tornerà più avanti.

[27] Per una pregevole ricostruzione di tale fondamento e del carattere costitutivo della relazionalità rispetto alla propria identità cfr.Francesca Scamardella, La dimensione relazionale come fondamento della dignità Umana, Rivista di filosofia del diritto, Il Mulino 2/2013 pagg. 305-317  

[28] F.Scamardella , op. cit. pag.307

[29] Viola Francesco, 2008, “I volti della dignità umana”.  In colloqui sulla dignità umana a cura di Alessandro Argiloffi, Paolo Becchi e Daniele Anselmo, Roma  Aracne pagg. 101-112

[30]Il concetto era già stato espresso da Hannah Arendt nella sua opera più importante: “A proposito dei diritti umani il punto decisivo è che tali diritti, e la dignità umana ad essi legata, dovrebbero rimanere validi e reali anche se un solo uomo esistesse sulla terra; essi sono indipendenti dalla pluralità umana e dovrebbero conservare il loro valore anche se un individuo fosse espulso dalla società.” …. “Ci siamo accorti dell’esistenza di un diritto ad avere diritti (e ciò significa vivere in una struttura in cui si è giudicati per le proprie azioni e opinioni) solo quando sono comparsi milioni di individui che lo avevano perso e non potevano riacquistarlo a causa della nuova organizzazione globale del mondo.” … “L’individuo può perdere tutti i cosiddetti diritti umani senza perdere la qualità essenziale di uomo: la sua dignità umana”. H.Arendt Le origini del totalitarismo. a cura di A Guadagnini, Einaudi,Torino 2004, pagg.410-412

[31]  Stefano Rodotà, La rivoluzione della dignità, La scuola di Pitagora editrice, pagg.14-15; Il diritto di avere diritti, cap. VI “ homo dignus” pagg.179-199, ed Laterza, 2012.

[32] In tale documento, infatti, il vocabolo “dignità” compare solo per indicare la carica che un individuo può ricoprire all’interno della società (cfr. P.Becchi, op. cit. pag.20, nota 18)

[33] Cfr. P.Becchi, op.cit pag 23 e nota

[34] Uno dei più grandi filosofi del novecento, Karl Jaspers, ha affrontato il tema della “responsabilità politica della Germania” in un saggio dal titolo La questione della colpa, ed. Raffaello Cortina 1966, rilevando:” Sta di fatto che noi tedeschi siamo obbligati, senza alcuna eccezione, a veder chiaro sulla questione della nostra colpa e a trarne le conseguenze. Ci obbliga a ciò la nostra dignità di uomini. Già quello che il mondo pensa di noi non può esserci indifferente; sappiamo infatti di appartenere all’umanità; siamo in primo luogo uomini e poi tedeschi……La questione della colpa, più che essere una questione posta dagli altri a noi, è una questione che noi poniamo a noi stessi” (pag. 18)

[35] Cfr. P.Becchi, op.cit pag 28

[36] S.Rodotà,op.cit.pag 19

[37] Primo Levi, I sommersi e i salvati, Torino,1986,103

[38] cfr. nota 26

[39] Simon Weill, “Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano”, ed. Castelvecchi (etcetera) 2013, pagg.29-30

[40] In tal senso cfr. sentenza cit. n. 4611/2021 che ha riconosciuto un diritto alla conoscenza di matrice costituzionale ex art. 21 cost.

[41] Cfr. Stefano Rodotà, La rivoluzione della dignità, La scuola di Pitagora editrice, pag.31

[42] Le tappe fondamentali di tale processo evolutivo sono ben descritte da Davide Bacis, Il diritto alla verità nel dialogo tra Corti, Roma Accoglie le suggestioni di San Josè de Costarica.  Note e commenti –DPCE on line, 2018/2

[43] Castillo Paèz v.Perù,1997 inter-Am Ct H.R(ser.c)n.34 par.86

[44] Bàmaca Vèlasquez v.Guatemala, 2000 Inter-Am Ct H.R(ser.c)n.70 parr 200-201

[45] El Tribunal considera que el derecho a conocer la verdad tiene como efecto necesario que en una sociedad democrática se conozca la verdad sobre los hechos de graves violaciones de derechos humanos. Esta es una justa expectativa que el Estado debe satisfacer, por un lado, mediante la obligación de investigar las violaciones de derechos humanos y, por el otro, con la divulgación pública de los resultados de los procesos penales e investigativos143. Esto exige del Estado la determinación procesal de los patrones de actuación conjunta y de todas las personas que de diversas formas participaron en dichas violaciones y sus correspondientes responsabilidades. Además, en cumplimiento de sus obligaciones de garantizar el derecho a conocer la verdad, los Estados pueden establecer comisiones de la verdad, las que contribuyen a la construcción y preservación de la memoria histórica, el esclarecimiento de hechos y la determinación de responsabilidades institucionales, sociales y políticas en determinados períodos históricos de una sociedad.

Traduzione dello scrivente: La corte ritiene che il diritto a conoscere la verità ha come effetto necessario che in una società democratica si conosca la verità sui fatti di gravi violazioni di diritti umani, Questa è una giusta aspettativa che lo Stato deve soddisfare, da un lato, attraverso l’obbligo di investigare le violazioni di diritti umani e, dall’altro, con la divulgazione pubblica dei risultati dei processi penali e investigativi. Ciò richiede che lo Stato determini proceduralmente le modalità di azione congiunta e di tutte le persone che, a vario titolo, hanno partecipato a tali violazioni e le relative responsabilità. Inoltre, nel rispetto dei loro obblighi di garantire il diritto alla conoscenza della verità, gli Stati possono istituire commissioni per la verità, che contribuiscono alla costruzione e alla conservazione della memoria storica, al chiarimento dei fatti e all’individuazione delle responsabilità istituzionali, sociali e politiche in specifici periodi storici di una società.

[46] Cfr. Anzualdo Castro v .Perù,2009 inter-Am Ct.H.R (ser.c) n.202, parr118-120, concernente un caso di insufficiente investigazione in ordine ad una desapariciòn forzada

[47] Cfr. Par.120. “Respecto de la alegada violación del artículo 13 de la Convención, los representantes se limitaron a señalar que el derecho a la verdad está vinculado “a un rango más amplio de derechos” y citaron varios instrumentos internacionales, informes al respecto y un caso ante la Comisión Interamericana, pero no lo vincularon a los hechos del presente caso. Consecuentemente, los elementos aportados resultan insuficientes para constatar la alegada violación de aquella disposición.”

[48] Cfr. D.Bacis, op. cit

[49] Corte cost. sentenza n. 233/2003

[50] Sulle clausole in bianco e la loro interpretazione cfr. Giorgio Pino, Il costituzionalismo dei diritti, Il Mulino,2017, pag.137

[51] Paolo Becchi, La dignità nel “Grundgeset” e nella Costituzione italiana, in Ragion Pratica, n. 38/2012 pagg.25-43, il Mulino  

[52] Becchi,cfr.op.cit,pag.35

[53] Becchi, Cfr. op.cit. pag.36

[54] Becchi, Cfr. op.cit. pag.37

[55] Becchi, cfr. op.cit. pag.40

[56] Becchi,cfr.op.cit pag.41

[57] P.Becchi, op.cit.pag.43

[58] S.Rodotà, “Diritto e giustizia. Interroghiamo la Costituzione”, La scuola di Pitagora editrice-Centopassi, 2016, pag.23. Lezione tenuta nella sede dell’Istituto italiano per gli studi filosofici il 16/1/2015

[59] Giorgio Pino, Diritti e interpretazione- Il ragionamento giuridico nello Stato Costituzionale, Il Mulino, 2010, pag.127

[60] G. Pino, cfr.op.cit.pag.129

[61] Giorgio Pino, Il costituzionalismo dei diritti op. cit. pag. 206

[62] Sul punto cfr. Bruno Celano, I diritti nello Stato costituzionale, Il Mulino 2013, pag. 198.

[63] Per un pertinente richiamo alla filosofia di E. Levinas fondata sulla “responsabilità verso il volto dell’altro” e sul riconoscimento, cfr. Federico Stella, La giustizia e le ingiustizie, Il Mulino,2006, pagg. 11 e 202-205.