La vendetta di Cosa Nostra non si ferma, anche se sei in pensione.
È la storia del giudice Alberto Giacomelli ucciso Il 14 settembre del 1988 a Locogrande, non molto distante da Marsala e Trapani. Gli piace andare in campagna e restare nei campi. Si muove da solo, dunque per i killer è un obiettivo facile. I carabinieri trovano il cadavere vicino alla sua autovettura: due colpi, uno alla testa e uno all’addome.
Sul luogo del delitto arriva velocemente Paolo Borsellino, in quel periodo procuratore della Repubblica di Marsala. Le immagini girate quella mattina mostrano il volto del Borsellino contratto dal dolore. Ma il magistrato si sforza di superare l’angoscia, la rabbia: il corpo di Giacomelli è lì, riverso, dunque non c’è tempo da perdere. Borsellino raduna gli investigatori, la scientifica, si mette subito al lavoro.
La mafia per la prima volta ha deciso di colpire un magistrato giudicante e la scelta cade su Giacomelli, presidente di sezione del Tribunale di Trapani dal 1978, e fino all’87 quando va in pensione.
Le indagini, e poi le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, portano alla condanna di Totò Riina, considerato mandante dell’omicidio.
Giacomelli – racconta il pentito Vincenzo Sinacori – viene ammazzato perchè ha toccato interessi di Totò Riina e, per essere precisi, del fratello Gaetano. La confisca di villa e terreni (28 gennaio 1985) posseduti a Mazara del Vallo da Gaetano Riina e dalla moglie, è infatti firmata proprio da Giacomelli che si occupa anche di misure di prevenzione.
È una delle prime sentenze di applicazione della legge Rognoni-La Torre. Ci vogliono quattordici anni perché la Corte d’Assise di Trapani riconosca che si tratta di un omicidio di mafia. Cosa Nostra fa pagare al magistrato quella confisca. Ma nei piani di Riina, probabilmente, Giacomelli deve morire anche per mandare un avvertimento ad inquirenti, giudici ed investigatori. I mafiosi sanno che, se continua così, cioè se verranno colpiti sistematicamente i loro patrimoni, saranno guai seri. E per il magistrato trapanese non c’è scampo.
Undici giorni dopo il delitto Giacomelli, lontano da Trapani, viene compiuto un duplice omicidio, secondo atto di un’impressionante sequenza. Sulla strada statale 640 che conduce da Agrigento a Palermo, con 46 proiettili vengono assassinati Antonino Saetta, presidente della Prima sezione della Corte di appello di Palermo, e suo figlio Stefano.
Saetta si è occupato di due importantissimi processi di mafia: quello per l’uccisione del giudice Chinnici, contro la famiglia Greco di Ciaculli, e quello per l’omicidio del capitano dei carabinieri Basile, contro i mafiosi Puccio, Bonanno e Madonia. I due processi si sono conclusi con la condanna all’ergastolo degli imputati, e con l’aumento delle pene rispetto al giudizio di primo grado.
Ma Saetta viene assassinato anche perché i boss non vogliono che vada a presiedere il maxiprocesso d’appello contro la mafia. Un rischio che Cosa nostra non può correre.
Mentre si diffonde nel Paese l’eco dell’omicidio Saetta nel trapanese torna a tuonare la lupara. Questione di poche ore.
L’agguato scatta la sera del 26 settembre 1988 non molto lontano da Trapani, davanti all’ingresso della comunità terapeutica Saman: Mauro Rostagno, ex leader di Lotta Continua, sociologo e giornalista, sta dedicando la sua vita all’impegno per il recupero di tossicodipendenti. Contemporaneamente denuncia mafia, politici corrotti e malaffare, dagli schermi di una televisione privata, Rtc. Un’altra spina nel fianco di Cosa Nostra e dei suoi soci d’affari viene “rimossa”.



