Europa? Ok. Ma per farne cosa?

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È passato poco più di un mese dalla manifestazione pro-Europa del 15 marzo. Verrebbe da domandarsi: chi se la ricorda? A parte ovviamente chi l’ha voluta e chi vi ha partecipato. Ma al di fuori di quel perimetro? Questa irrilevanza non fa piacere, al contrario allarma.

L’invocazione dell’Europa come se fosse un salvacondotto fa molto figo, ma non basta: è l’equivalente di un cornetto tenuto in tasca come amuleto.

Nel recente passato ci sono già state manifestazioni politiche che esaltavano la differenza di posizioni, che avevano un manifesto di convocazione omnicomprensivo, che invitavano ad una partecipazione scialla. E anche queste, alla fine, non hanno lasciato traccia.

Un’amica geniale nel suo lavoro di grafica mi spiegava che c’è la fase divergente, dove devono arrivare più input possibile, a cui segue la fase convergente, che distilla da quel brainstorming il segno, il colore, il claim. Il messaggio, insomma. Più o meno vale anche per la politica.

E questo è il problema. Perché Orban non è Sanchez; perché il green deal o è green o non è; perché l’Alta Rappresentante della Politica estera europea non può svegliarsi ieri e dire che “a Gaza Israele ha superato i limiti della proporzionale autodifesa…

Pierre Hasky, storica firma de “Le Nouvel Obs” recentemente ha scritto che “raramente ho notato un simile sentimento di urgenza e reazione esistenziale, con la sensazione che l’Unione non possa più permettersi il lusso di sbagliare”. Di fronte alla svolta autoritaria statunitense, al collasso delle democrazie, alle guerre che sono le principali nemiche dei diritti l’Europa può essere un porto sicuro? I manifestanti di Roma, quelli di Bologna qualche settimana dopo, perfino Pierre Hasky rispondono che sì, l’Europa potrebbe giocarsi questa carta. Ma ancora una volta questa risposta rischia di essere emotiva. Il primo dubbio è proprio la guerra, il piano ReArm, la Difesa Europea, l’industria bellica.

“Nessuno può sentirsi in pace se oppresso, invaso, sottomesso. Tutti vogliamo la libertà, ma non c’è libertà se non c’è la pace. Niente sospende la libertà degli esseri umani come la guerra”, ha detto dal palco di Piazza del Popolo Michele Serra, lo scrittore che ha lanciato l’idea della manifestazione per l’Europa.

Sottoscrivo. Ma come la mettiamo con il programma ReArm? Se quelle armi restituiscono la libertà agli ucraini tutto bene, ma se servono per sparare sui civili di Gaza? E se attraverso le triangolazioni armi made in Europe finiscono per opprimere, invadere e sottomettere?

In vista del prossimo Festival dei Diritti Umani (dal 5 al 7 maggio) abbiamo intervistato Dan Smith, il direttore del Sipri di Stoccolma il più prestigioso istituto per lo studio del mercato bellico. A queste domande Dan Smith risponde in modo interlocutorio. Eccone un breve assaggio: “Il piano ReArm facilita la difesa europea, rafforza la collaborazione fra eserciti o imprese? Penso che questo piano di riarmo non dia risposte, è una domanda che non trova risposte da mezzo secolo. Ma ora c’è Trump. L’Europa non può fare più affidamento sugli Stati Uniti per la sua sicurezza, e questo deve incoraggiare una maggiore unificazione europea, anche nello sforzo militare. La prossima domanda è: “è una cosa buona o cattiva?” Si può rispondere guardando le cose da un altro punto di vista: data l’aggressione della Russia contro l’Ucraina, la soluzione è spendere più soldi? Generalmente se dirotti un un sacco di soldi su un problema non trovi una soluzione ma inefficienza, spreco e corruzione. Quindi dovremo concentrarci molto di più non su quanti soldi spendiamo, ma su come li spendiamo”.

Ben detto Dan. Alla prossima manifestazione per l’Europa lo chiederemo agli organizzatori.

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* Direttore della Fondazione Diritti Umani