“Dio è morto, Marx pure, e anche io non mi sento molto bene”. Questo aforisma, attribuito a Woody Allen e in realtà di Eugene Ionesco, spiega perfettamente la mia difficoltà a scegliere di che cosa parlare nelle “Storie italiane” di oggi.
Ho un profondo senso di disagio.
Di qua la mia città, Milano, che sembra inguaribilmente preda del tarlo della corruzione, si tratti dei passaggi di denaro o del conferimento di incarichi e consulenze. Palazzi, grattacieli, San Siro: ci si chiede a che serve la medaglia d’oro al valor militare della Resistenza, se non si sa resistere ai fondi d’investimento ebbri di ricchezza e di pretese di comando.
Di là la città che rappresenta quasi simbolicamente la storia della sinistra italiana, Reggio Emilia, costretta allo spettacolo inverecondo del secondo inchino della sua storia ai poteri di Cutro, con scondinzolio di “grandi e piccoli cantori”, per usare l’espressione che Giovanni Falcone introdusse di sua mano nelle tipologie del concorso esterno (qui storico-civile, non penale certo). E di nuovo ci si chiede a che serve la medaglia d’oro al valor militare della Resistenza -o la memoria dei fratelli Cervi- se non si sa resistere al fascino indiscreto dei Grande Aracri e di chi, in Emilia, fece loro il primo inchino.
Insomma – e per questo non mi sento molto bene – dove stiamo andando a furia di evocare la leggenda di “Giovanni e Paolo”, i nostri due grandi Giudici? Però questo è un interrogativo che voglio tenermi per una prossima volta.
Ora, per regalarmi un po’ di aria pulita, mi viene voglia di ricordare due belle persone milanesi che ci hanno lasciato negli scorsi giorni. Parlo di Emilio Molinari e di Sandro Antoniazzi, entrambi simboli di quella irripetibile classe operaia che con maestria Corrado Stajano mise al centro del suo ritratto della Milano democratica ne “Il disordine”.
Uno dei due, Molinari, orgogliosamente comunista, il sorriso solare e i baffi sfrontati da capopopolo che infiammava le tute blu in rivolta. Il secondo, Antoniazzi, cattolico dalla fede profonda, gli occhi celesti e mansueti, la calma dei giusti che rassicurava i deboli.
Due immagini della Milano operaia, dove nessuno avrebbe pensato di trattare con il Comune nell’anonimato, o ideato di tirar giù San Siro per trarne affari e nemmeno di potere sfigurare mezza città senza permessi (la chiamano Scia). Li ricordo per come li ho conosciuti, quei due militanti della democrazia.
Uno che rifiuta le burocrazie sindacali e dà vita ai mitici “comitati unitari di base” della Borletti. L’altro che rappresenta invece il sindacato “moderato” e ne porta la solidarietà in ribollenti assemblee studentesche alla Statale di Milano. Tutti e due capaci di interpretare nuove domande sociali. Molinari che arriva al parlamento europeo e senza saper di mafia vi coglie come affronto morale la presenza di Salvo Lima; realizzando su di lui uno storico e coraggioso pamphlet intitolato “Un amico a Strasburgo”. O che sposa la battaglia ambientalista fino a promuovere con altri temerari il referendum sull’acqua bene pubblico e addirittura, con gli altri promotori, raggiunge l’impossibile quorum e li vince.
Antoniazzi che cerca -riuscendoci!- di costruire la figura del sindacalista-intellettuale nel mondo in cui si rovesciano le culture, fino a frequentare le università non solo se in tumulto ma anche dalla cattedra in dense lezioni-testimonianze e a dare nuove parole alla diocesi milanese.
Non sono riuscito ad andare ai funerali di Sandro. Ce l’ho fatta ai funerali di Emilio, dove purtroppo mancava quasi tutta la sinistra che conta.
Oggi quelle due vite parlano. Con le loro semplicità e i loro orgogli puliti. Con la continua attenzione per l’ “altro”, che non era quasi mai il più potente. Con la misura delle proprie ambizioni, sempre sottomesse all’interesse generale.
Due “belle persone”, appunto. Che non si sono servite di Milano. L’hanno servita.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 21/07/2025



