Caro Roberto Morrione, ti racconto cosa succede ai giornalisti a Gaza

Roberto Morrione

Oggi è il compleanno di Roberto Morrione e quest’anno lo celebriamo illuminando un luogo di guerra, ingiustizia e disperazione, quello di Gaza. 

Abbiamo chiesto al giornalista del quotidiano Domani Youssef Hassan Holgado – vincitore della 12′ edizione del Premio Roberto Morrione e membro del Centro di Giornalismo Permanente – di raccontarci della condizione dei giornalisti e delle giornaliste nella Striscia, divenuti target dell’esercito israeliano, così come tutto il resto della popolazione. 

Dal 7 ottobre 2023 sono oltre 50mila vittime, un terzo bambini, 220 gli operatori dell’informazione. Youssef racconta quotidianamente per il suo giornale quanto sta succedendo a Gaza ed è da poco tornato dal viaggio che lo ha portato sino al valico di Rafah. Si è unito alla carovana italiana di “Gaza oltre il confine”, composta da parlamentari ed eurodeputati delle opposizioni, dai rappresentanti di Aoi, Arci, Assopace Palestina, Acs, e da giornalisti come lui. Oltre il valico di Rafah non si poteva andare. Il governo israeliano ha vietato l’ingresso a tutta la stampa internazionale.

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Caro Roberto, ti scrivo e ti racconto cosa succede ai giornalisti a Gaza

Non ho mai conosciuto Roberto Morrione. O meglio, non l’ho mai conosciuto di persona. La sua storia e la sua eredità giornalistica, invece, viaggiano nei racconti di chi lo ha avuto come direttore o collega. In questi anni di conoscenza con Mara, Giovanni, Alessandra e tanti altri amici dell’Associazione Roberto Morrione ognuno aveva un insegnamento o un aneddoto da raccontare ai più giovani. Tutti avevano un comun denominatore: la testardaggine per un giornalismo scevro da condizionamenti esterni o intermediazioni. D’altronde, quando ha fondato Rai News 24, l’obiettivo quale poteva essere se non quello di garantire una copertura delle notizie direttamente con gli inviati presenti sul luogo dei fatti? Un privilegio e al tempo stesso una responsabilità sulle spalle che oggi non tutti riescono ad avere.

In questi tempi complicati per la stampa (difficile poi capire quali non lo siano stati), stretta tra il precariato dei freelance, le querele temerarie di imprenditori e governanti, e la difficoltà di accesso al settore per i più giovani, cosa avrebbe pensato Roberto di ciò che sta accadendo ai colleghi nella Striscia di Gaza? Della conta che vede oltre 220 giornalisti uccisi dall’esercito israeliano? Non c’è presunzione nel voler dare una risposta, chi lo ha conosciuto avrà un’idea molto più chiara. Di sicuro, però, non avrebbe mai accettato che gli operatori dei media potessero diventare un target militare. Definirle vittime collaterali di un conflitto brutale e senza regole non è soltanto riduttivo ma anche incorretto.

Di fronte a quello che sta accadendo, il giornalismo è chiamato ad assolvere il proprio compito in maniera onesta. Ed è quello che i palestinesi chiedono alla stampa occidentale. Chiedono di non essere disumanizzati, di dare conto dei crimini di guerra che vengono commessi quotidianamente e di chiamarli tali. Chiedono di avere rispetto per la vita umana, dignità per gli oltre 16 500 bambini uccisi, e di richiamare i vertici militari e politici israeliani alle loro responsabilità di fronte al diritto internazionale. Basta ascoltare le loro storie per capire la portata di ciò che sta accadendo.

Ahmad Jad, direttore del giornale Al Ayyam, ci ha raccontato che non ha più sentimenti. Che quando sono morti i suoi nipoti non aveva più lacrime per piangerli. E anzi, in un certo senso, provava un moto di sollievo per una morte veloce e non sofferente come invece ha testimoniato con i propri occhi mentre dagli ospedali raccontava cosa accadeva prima di riuscire da Gaza e trovare rifugio in Egitto. Lui ora è fuori, ma i “suoi” inviati sono ancora nella Striscia.

«Si muovono immediatamente verso l’area colpita dai raid aerei appena ne hanno notizia, non pensano a cosa può accadergli, l’obiettivo è raccontare cosa accade».

Abdel Nasser Abu Aoun, invece, ha chiesto semplicemente che i suoi colleghi abbiano i dispositivi di protezione adatti per svolgere il proprio lavoro in un contesto bellico alla pari come i giornalisti che coprono altre zone di conflitto. «I giubbotti con la scritta “Press” e gli elmetti che indossano non sono adeguati. Non forniscono alcuna protezione. Sono giubbotti fatti di spugna, servono solo per essere identificati come giornalista o operatore dei media, ma non proteggono», dice.

E poi c’è il dolore psicologico, spesso indelebile anche in un ipotetico futuro di pace. «Quando un giornalista racconta un bombardamento, sa che c’è un’alta probabilità che racconterà la morte di un familiare, un amico, un collega o una persona a lui care». A Gaza servono anche molte più telecamere e penne per documentare e tramandare ciò che sta accadendo. Lo sa benissimo il governo israeliano, che proprio per questo ha vietato ai giornalisti internazionali di oltrepassare i valichi. Nessuno può essere testimone.

Guai a definire i giornalisti gazawi come degli eroi. Gli eroi sono coloro che spesso pagano le loro buone azioni con il sacrificio della vita. E nella Striscia nessuno è o deve essere sacrificabile. Sono professionisti che – come tutti lì dentro (medici, soccorritori, operatori umanitari, panettieri) – svolgono il loro lavoro con dedizione. Un esempio concreto ed esplicito del motto di Roberto Morrione: “Fa’ ciò che devi, accada quel che può”.

Youssef Hassan Holgado

Premio Roberto Morrione