“Sarà una risata che vi seppellirà”. Questa frase attribuita a Michail Bakunin, campione del pensiero anarchico dell’Ottocento, campeggiò a lungo sui muri del Sessantotto. Esprimeva una potenza visionaria e aveva il pregio di interrompere ogni tanto la sfilza di minacce in vernice rossa che il mito rivoluzionario depositava su quasi ogni edificio.
Fu anche una consolazione per tanti militanti sconfitti che, di fronte alla pervicacia dei poteri del tempo, affidavano la loro speranza a quella crassa risata collettiva che avrebbe travolto per sempre nomi e volti degli oppressori. Diciamo che di fronte agli orrori che percorrono il mondo a nessuno passa comprensibilmente in testa, oggi, di sperare nella risata vendicatrice.
O almeno: non sempre. A me però è risorta la speranza, anzi, la convinzione che così sarà quando ho letto le dichiarazioni del figlio di Totò Riina, Giuseppe Salvatore detto Salvuccio, a due graziosi intervistatori (i nomi? Gioacchino Gargano e Luca Ferrito…) per una graziosa testata che porta il nome di un quartiere di Palermo.
Che cosa ha detto dunque il figlio di colui che qualcuno improvvidamente chiamò “il capo dei capi” (le parole si pagano sempre…)? Ha detto tante corbellerie di cui il “libero pensiero”, quello in nome del quale la mafia fece uccidere Mario Francese, Peppino Impastato e Mauro Rostagno, richiede per sua bocca la circolazione. Nel mezzo alcune perle che sono assolutamente da non perdere.
Il padre Totò, spiega il rampollo già a sua volta condannato per associazione mafiosa, “è stato arrestato perché dava fastidio, così come a un certo punto hanno dato fastidio Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro”. I boss, diciamolo finalmente, sono stati in effetti un po’ come i dissidenti della Russia di Breznev o di Putin. Riina come Navalny. Anche perché, argomenta classicamente il nostro, “non servivano più in quello Stato a quelli che detenevano veramente il denaro della mafia”, visto che -arieccoci con la solita solfa- “la mafia vera non è in Sicilia, ma a Roma”.
Magistrale anticonformismo davvero. Così la risata inizia a prendere corpo, vedendo per la millesima volta questi signori presentarsi con grande sprezzo del ridicolo, dal Giappone alla Sicilia al Messico, come “ribelli”, “scomodi” o “antisistema”.
Tralasciamo altri passaggi di sfrenata forza umoristica per arrivare però a quello in cui “Salvuccio” dà il meglio di sé; ovvero quando paragona la sua esistenza di bambino figlio di un latitante protetto dallo Stato alla esistenza dei bimbi palestinesi di oggi bombardati e dilaniati a Gaza da un potere criminale senza confini.
Leggiamo dalla cronaca di Lara Sarignano per il “Corriere”: “Perché come i piccoli palestinesi ho vissuto sempre come fossi in perenne emergenza. Anche se, quando dovevamo scappare da un rifugio all’altro con papà, per me era come una festa perché conoscevo posti nuovi e gente nuova”.
Preciso preciso come per i bimbi di Gaza: “una festa”. Dal terrore alla pagliacciata. Forse non vi è traiettoria più efficace per descrivere la disfatta di Cosa Nostra.
Arrabbiarsi? No. Piuttosto una bella, grande risata, meglio uno sghignazzo, davanti a un tipo convinto, come i suoi pari, che il padre resterà nella storia. Una sorta di mito del male. Ci sono d’altronde giornalisti che glielo fanno credere.
Il guaio (devo pur avvisarli) è che io in verità inizio a trovare studenti che confondono la belva di Corleone con Al Capone o Raffaele Cutolo. Nulla di strano. Maciniamo i decenni e oggi si laureano studenti che nel ’92-’93 non erano ancora nati.
Solo che quando non sanno chi fossero Falcone e Borsellino trovano ovunque persone desiderose di raccontarglielo con ammirazione o riconoscenza. Mentre per informarli di Riina, nel 90 per cento dei casi, spuntano due veloci epiteti di disprezzo.
Ora, ecco la vera rivincita, ci sarà soprattutto la risata. Il che non è male.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 22/09/2025



