“So come mi chiamano ma non come mi chiamo, / il nome l’ho smarrito senza sporgere reclamo, / dimoro in una stanza come merce in magazzino: / buongiorno a tutti, sono clandestino. / Dev’esserci un equivoco, qualcosa di sbagliato, / mi dicono che avrei commesso un crimine, un reato, / allora mi domando se son ladro o assassino, / poi scopro di esser solo clandestino. / Se c’è un po’ di giustizia, se c’è vera uguaglianza, / avrò ben presto anch’io diritto di cittadinanza, / ma forse è un sogno matto, forse un sogno ballerino, / il sogno, almeno, non è clandestino”. È una delle ventuno “filastrocche migranti” che il maestro Carlo Marconi ha provato a comporre per spiegare le migrazioni ai suoi alunni. Ne ha ricavato un libro che si chiama ‘Di qua e di là dal mare’ (Ed. Gruppo Abele) che verrà presentato a Torino venerdì 23 febbraio. Lo accolgo come un colpo d’ali per emergere dalla palude delle paure enormizzate strategicamente e per provare a guardare nella profondità degli sguardi non solo il fenomeno (o il problema?) ma innanzitutto le persone che lo vivono (o ne sono vittime?). Una leggerezza che non offende ed è capace di comunicare vita. Solo vita. “Giro giro girotondo / com’è strano e buffo il mondo / cinque sono i continenti / che si abbracciano contenti / e una forte e salda fune / lega uomini e fortune / regge popoli e città / è la solidarietà”.
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